L’8 settembre 1943 ero a Pinerolo come sottufficiale istruttore delle reclute del 1924. Facevo parte di uno squadrone motorizzato con autoblinde.
Quando giunsero i tedeschi, visto che c’era molta incertezza sul da farsi, specie fra gli ufficiali decisi di venire a casa e fui seguito da una quindicina di soldati.
Strada facendo chi andò da una parte, chi dall’altra e io arrivai a Marzabotto assieme al soldato Marino Cantieri, anch’egli del luogo.
Andai a Ca’ di Germino, dove c’era la mia famiglia che lavorava un podere.
Sul posto trovai subito i carabinieri che erano venuti a cercarmi: dissi loro che ero appena arrivato e li convinsi a riferire in caserma che non mi avevano visto e così fecero.
Poi tornarono, ma io mi ero già dileguato ed ero andato dalla parte degli antifascisti che si adoperavano in quei giorni per dare inizio alla lotta armata contro i fascisti e i tedeschi.
Al maresciallo feci sapere che al di là del fiume per il momento comandava lui, ma al di qua comandavo io.
Il primo incontro con gli organizzatori del movimento partigiano, incontro procuratomi dai contadini della vallata, lo ebbi al Casone di Rio Moneta dove trovai il Lupo (Mario Musolesi) e Gianni Rossi.
Poi mi incontrai, nella casa di Crisalidi, con Giorgio Ugolini e lo stesso Crisalidi, che in seguito divenne commissario politico della brigata «Stella rossa».
Non tardammo ad avere informazione che nel gruppo c’era anche un tale Olindo Sanmarchi, detto «il cagnone», che era un individuo sospetto.
Quando avemmo la certezza che era un agente fascista infiltrato fra di noi, lo smascherammo e, in seguito, Sugano lo eliminò sorprendendolo in divisa fascista, a Castelletto di Vado, sulla corriera diretta a Castiglione dei Pepoli.
Verso la fine del 1943 il primo nucleo armato della «Stella rossa» era già formato ed attivo attorno al Lupo e i partigiani erano dislocati a Ca’ di Germino e Brigadello.
V’erano però già altri giovani disponibili che in casa avevano delle armi. Fra i primi partigiani c’erano anche due neo-zelandesi (Steves e Bob), uno scozzese (Giok), un sud-africano bianco di origine tedesca (Hermes) e un indiano (Sad): erano tutti scappati dai treni che li portavano prigionieri in Germania.
Ci intendemmo subito anche perché fecero presto ad imparare la nostra lingua.
Fin dai primi dell’anno 1944 avevamo stabilito dei buoni contatti con le popolazioni locali e ciò ci aiutava molto nel reclutamento di nuovi giovani.
Oltre alle basi citate, facemmo anche dei rifugi sotterranei nella zona di Brigadello e monte Sole per passare l’inverno e ospitare i nuovi venuti.
Il Lupo si interessava in particolare dell’organizzazione della brigata e dei rapporti con gli organi antifascisti della città, mentre io ero più che altro addetto all’istruzione, all’uso delle armi e ai vettovagliamenti.
Col Lupo e Gianni Rossi lavoravo sempre in stretto contatto.
In quel periodo uno dei pericoli maggiori era quello delle spie.
I primi di febbraio un altro agente fascista, del quale ci fu comunicata anche l’identità, presentandosi come uno sbandato, venne a Ca’ di Germino.
Fu subito riconosciuto e quando, dopo un’operazione di pattuglia, rientrai nella casa, circa due ore dopo, anch’io lo riconobbi.
Lo trattenemmo per interrogarlo e gli dicemmo che sapevamo che era una spia fascista: lui non negò di essere un fascista, ma disse che voleva venire con noi e che non aveva alcuna intenzione di nuocerci.
Due giorni dopo, all’alba, approfittando di un momento di distrazione, si impossessò del pugnale del Lupo (si noti che sul comandante, su Gianni e su me c’erano delle grosse taglie) e lo colpì fulmineamente piantandogli la lama nella schiena e poi si avventò su Gianni il quale fu salvato dalla prontezza di riflessi del Lupo che col braccio deviò in parte il pugnale.
Io intervenni subito e, seppure con una dura lotta corpo a corpo, riuscii ad immobilizzarlo e ad eliminarlo. Le ferite di Lupo erano gravi e anche Gianni si era preso una pugnalata alla testa. Gianni ed io ci interessammo subito del Lupo e lo portammo nella casa del contadino di Rio Moneta e non tardò molto a rimettersi.
Pochi giorni dopo, il 16 febbraio, i fascisti fecero un rastrellamento.
In quel momento dovevamo essere non più di trenta, armati solo di fucili. Adottammo un metodo particolare di guerriglia, con rapidissimi spostamenti per far credere che eravamo in molti.
Dopo circa tre ore di combattimento i fascisti furono costretti a fuggire, con perdite notevoli in uomini e mezzi (ricordo che mettemmo fuori uso anche un camion) e noi demmo l’impressione di essere molto più forti di quello che eravamo in realtà.
Intanto gli uomini continuavano ad aumentare e io avevo molto da fare per istruirli nell’uso delle armi e nella tecnica del combattimento.
Il Lupo e Gianni frattanto continuavano senza sosta nelle azioni di sabotaggio alle ferrovie e alle comunicazioni e di attacco a reparti nemici in transito.
In aprile le nostre forze aumentarono ancora e giungemmo ad essere un centinaio e allora furono formate le squadre e un nuovo sistema di collegamenti, con l’appoggio dei contadini.
Il 4 maggio i fascisti fecero un grosso rastrellamento nella zona di Gardeletta e Castelletto, che si concluse con una loro nuova disfatta, tanto più scottante, in quanto nel combattimento morì anche il loro comandante, il maggiore Dario Bernini.
Il 28 maggio i fascisti, stavolta appoggiati da notevoli forze tedesche, vennero di nuovo all’assalto della «Stella rossa» che in quel momento era forte di circa 300 uomini bene armati a seguito di due lanci alleati.
La battaglia durò dall’alba al tramonto in un susseguirsi di attacchi e contrattacchi nelle zone di monte San Silvestro, monte La Villa, monte Sole e nelle frazioni di Caprara e San Martino.
Ci sentivamo tanto forti che li lasciammo persino venire avanti per poi attaccarli di fronte e alle spalle e subirono gravissime perdite.
Ricordo che dalla mia postazione avanzata vidi circa 150 tedeschi salire nella nostra direzione attraverso un vigneto.
Dissi agli uomini di non sparare (le nostre armi erano buone, però a tiro corto) finché non fossero vicinissimi e li lasciai avvicinare fino a poco più di una decina di metri e poi aprimmo improvvisamente un fuoco d’inferno e ne uccidemmo moltissimi, sia durante la prima ondata sia quando cominciarono a fuggire in disordine.
La sorpresa fu totale e certo gli scampati furono pochi. Frattanto, altrettanto facevano il Lupo e Gianni che giunsero ad inseguire i tedeschi in fuga fino ai fiumi Setta e Reno.
Fu una vittoria straordinaria. Da parte nostra vi furono due morti e tre feriti. Dopo la battaglia il Lupo si spostò col grosso a monte Vignola ed io invece con tre compagnie andai nella zona di Medelana, mantenendo sotto controllo un vasto territorio.
Il 24 giugno subimmo un nuovo rastrellamento e stavolta contro di noi vennero, oltre ai fascisti e alla Wehrmacht, anche reparti di SS.
Cercarono di disperdere e annientare le nostre forze a Monte Vignola, ma la brigata, spostandosi continuamente, formò delle sacche e alla fine anche stavolta dovettero ritirarsi senza avere raggiunto il loro obiettivo.
Dopo la battaglia la brigata si trasferì fra Zocca e Monteombraro e qui vi fu un dissidio fra Lupo e Sugano e una parte dei partigiani seguì Sugano a Montefiorino. Noi invece ritornammo nei pressi della zona d’origine compiendo molte azioni in un vasto raggio (Tolè, Grizzana, monte Salvaro, Monteacuto Ragazza, VaI Serena, Bruscoli e Pietramala).
Vi furono combattimenti e furono attuate molte azioni di sabotaggio alle comunicazioni e attacchi a colonne in transito: la più importante fra queste fu la distruzione di una colonna di dieci autocarri tedeschi nei pressi di Pioppe.
Verso la metà di agosto la «Stella rossa» dovette sostenere grossi combattimenti che si conclusero positivamente. Verso la fine del mese tornammo col grosso delle forze a monte Sole poiché in quella zona il Lupo pensava di poter restare fino all’arrivo degli alleati, che si pensava fosse prossimo.
Qui la brigata che comprendeva circa 800 uomini, fu riorganizzata e furono formati tre battaglioni composti di compagnie e squadre.
Il primo battaglione fu affidato al comando di Celso Menini, al secondo fu designato Walter Tarozzi, al terzo Otello Musolesi. Il Lupo volle che io restassi con lui al comando, anche per la fiducia che aveva in me nel trattare questioni politiche e militari.
Non era un compito facile, anche perché i rapporti fra il Lupo, che era un militare, e gli organi dirigenti della città, non erano mai stati facili e non erano mancati, specie su questioni politiche, degli attriti e delle incomprensioni da entrambe le parti.
Con l’aumento delle forze si pose però ben presto l’esigenza di formare un quarto battaglione, includendo in questo anche una quarantina di sovietici e di polacchi, comandati da Karaton.
Il comando del quarto battaglione fu affidato a Cleto Comellini e nel frattempo io svolgevo gli incarichi affidatimi dal Lupo. Subito dopo la metà di settembre il battaglione giunse ad una forza superiore a quella degli altri, pur avendo un armamento inferiore e uomini meno addestrati.
Allora il Lupo mi nominò comandante del quarto battaglione, con Cleto come vice comandante. Con questo schieramento la «Stella rossa» si trovò di fronte al grande rastrellamento-massacro di Reder che cominciò all’alba del 29 settembre 1944.
Prima dell’alba io ero fuori di pattuglia, alle Scopi di Casaglia. Ebbi notizia del rastrellamento da una piccola pattuglia che veniva da Ca’ di Germino.
Allora diedi gli ordini di appostamento e andai verso il comando di battaglione che era a Dizzola, ma subito mi accorsi di essere in mezzo ai tedeschi.
Improvvisamente una raffica mi sfiorò e allora scesi da cavallo e ce la feci a raggiungere la compagnia di Cerpiano del quarto battaglione, che era già stata attaccata e combatteva.
Ma i tedeschi erano ormai dappertutto e il comando di battaglione aveva sgombrato la zona. Tornai alla compagnia di Cerpiano e da quella posizione riuscimmo a tenere aperta la strada alla prima compagnia in ritirata.
Poi in un sessantina circa raggiungemmo monte Sole dove c’era la massa dei partigiani, in maggioranza del terzo battaglione. Da quella posizione fummo costretti ad assistere impotenti al massacro di Casaglia e alla difesa di monte Caprara da parte dei russi e di uomini del terzo battaglione.
Fra di noi sorsero subito dei contrasti aspri sulle decisioni da prendere.
Io decisi di andare a Santa Barbara, con una decina di uomini, perché in quel luogo una compagnia del quarto battaglione stava combattendo duramente contro i nazisti.
Ci unimmo ai compagni riuscendo a respingere per tutta la giornata i numerosi attacchi tedeschi e a sera tornammo tutti su monte Sole dove i tedeschi non riuscirono a mettere piede.
Qui lasciai il comando del battaglione a Cleto e mi avviai alla ricerca del Lupo (non sapevo nulla della battaglia di Cadotto e della morte del comandante) che credevo fosse a Prunaro. Seguii il seguente itinerario: monte Sole, Caprara, San Martino, Prunaro e dovunque trovai i segni dello sterminio nazista.
Ma a Prunaro non trovai traccia né del Lupo, né degli altri.
Allora percorsi il tratto Steccola, Termine, monte Salvaro, percorrendo sempre i luoghi del massacro.
Poi a Quercia, Possatore, Ca’ di Germino, Casone di Rio Moneta, Poggioletto. Qui persi tutte le tracce.
Tornai a Poggioletto con una ventina di uomini, ma qui non trovai , come credevo, il battaglione.
E allora decidemmo di passare il fronte a Ca’ dei Veneziani, poi sostammo nei boschi di San Niccolò durante la notte e qui il giorno dopo incrociai gli alleati e giunsi a Monzuno che era già stata liberata.