A cura di Giancarlo Grazia ANPI BOLOGNA
Nel momento in cui si commemorano le vittime dell’Olocausto non sarà superfluo ricordare che il 27 gennaio 1944- esattamente un anno prima del giorno in cui i soldati sovietici abbatterono i cancelli di Auschwitz - a Bologna otto patrioti antifascisti venivano fucilati dai fascisti nel poligono di tiro di via Agucchi. L’eccidio fu il primo di una lunga serie protrattasi fino alla vigilia della liberazione. All’inizio di gennaio giunse la notizia che i fascisti avevano fucilato sette fratelli di una famiglia contadina allora sconosciuta della bassa reggiana, la famiglia Cervi. E negli stessi giorni sui muri della città apparve un manifesto in lingua tedesca accompagnato dalla traduzione in italiano. Evidentemente gli invasori germanici già ci consideravano sudditi del Terzo Reichh e come tali già si comportavano. Il manifesto annunciava la fucilazione di cinque partigiani. Imparammo così che “Bekanntmachung” voleva dire “Avviso” e anche, purtroppo, come si scrive in tedesco “La sentenza di morte è stata eseguita”. L’avremmo letto tante altre volte in seguito, ma soprattutto avremmo visto le vittime di tante fucilazioni e stragi di civili.
Sul finire dello stesso mese a Bologna avvenne un fatto di rilevante importanza. Il 26 gennaio, alle ore 12,40, mentre saliva la scala di accesso alla mensa universitaria in via Zamboni insieme ad altri camerati, il Federale del fascio Eugenio Facchini veniva ucciso da due partigiani che gli si erano fatti incontro sparando alcuni colpi di arma da fuoco. L’attentato fu portato a termine dai gappisti Bruno Pasquali e Remigio Venturoli.
Non fu un’azione improvvisata, estemporanea bensì un atto di guerra eseguito per ordine del Comando della Resistenza. E non fu nemmeno un atto isolato in quanto anche in altre città vennero colpiti i vertici della R.S.I. “colpevoli di riesumare il fascismo responsabile della dittatura e della guerra e di assoggettarsi all’ invasore tedesco”. L’ attentato colse di sorpresa non solo i fascisti ma anche i tedeschi già preoccupati degli sviluppi che avrebbe potuto avere, come in effetti ebbe, la lotta partigiana.
Vennero attivati posti di blocco in città ed in particolare controlli nei confronti dei ciclisti, poiché la bicicletta era il mezzo più usato dai gappisti per le loro azioni improvvise. Il giorno seguente venne messa una taglia di un milione di lire - cifra enorme per quel tempo - a chi avesse anche soltanto favorito la cattura degli attentatori. Ma nessuno si presentò a riscuotere quel denaro : Giuda non abitava a Bologna. I partigiani Bruno Pasquali e Remigio Venturoli morirono eroicamente nel corso della lotta di liberazione. Pasquali, in particolare, venne arrestato e sottoposto ad atroci torture, ma la loro morte non ebbe relazione alcuna con l’attentato.
Non si erano ancora sopiti i contrasti che all’interno del fascio bolognese avevano accompagnato la nomina di Eugenio Facchini alla carica di “commissario straordinario” della federazione che la sua morte per mano dei partigiani produsse un inevitabile disorientamento. Era troppo forte il colpo subito. Nel pomeriggio di quello stesso giorno nella sede della federazione, in un clima di grande eccitazione, si svolse una riunione alla quale, insieme agli esponenti del fascio locale, parteciparono anche squadristi venuti dalle città vicine. Le parole ”vendetta” e “morte” si levarono ripetutamente gridate dai più fanatici.
Alla riunione intervenne il segretario del partito fascista repubblicano, Alessandro Pavolini, venuto direttamente da Salò per gestire la situazione. Più tardi la sede delle decisioni si trasferì da via Manzoni nella Prefettura dove, in una specie di consiglio di guerra, venne improvvisato un “Tribunale militare straordinario” con il compito di dare una parvenza legale a quello che sarebbe stato un infame atto di rappresaglia. Il processo, se così vogliamo chiamarlo, si svolse nella nottata. La lista degli imputati era già pronta. Dieci antifascisti erano stati scelti fra i detenuti del carcere di San Giovanni in Monte. Ma al processo gli imputati non c’erano, né potevano esserci perché, rinchiusi nelle celle del carcere nemmeno sapevano che si stava celebrando un processo a loro carico. Dunque, fu una tragica messinscena che purtroppo costò la vita a dieci persone: otto delle quali fucilate, due morte in seguito alla condanna.
Nella sentenza, pubblicata dal “Resto del Carlino” - sempre ligio agli ordini dei camerati tedeschi e a quelli dei gerarchi vecchi e nuovi della Repubblica di Salò - agli imputati vennero attribuite le seguenti colpe: “ il concorso nel delitto di omicidio con armi nella persona di Facchini Eugenio, Commis-sario straordinario della Federazione fasci-sta repubblicana di Bologna”; con l’ accusa “di avere, dal 25/7/1943 in poi, con scritti, con parole, con particolari atteggiamenti consapevoli e volontarie omissioni e con atti idonei ad eccitare gli animi, alimentato l’atmosfera del disordine e della rivolta e determinatogli autori materiali dell’omicidio a compiere il delitto allo scopo di sopprimere nella persona del Caduto il difensore della causa di chi combatte per ’l’indipen- denza e l’unità della patria”. Non c’era proprio bisogno di tanti giri di parole e di tanta ipocrisia per dire che dovevano morire. La sentenza era già scritta in precedenza.
Come abbiamo scritto, il 27 gennaio 1944, nel primo pomeriggio, otto dei dieci condannati vennero portati al poligono di tiro e fucilati. Poco o nulla si sa della loro morte se non che era presente un sacerdote che diede loro l’assoluzione: assoluzione non dovuta perché si trattava comunque di innocenti. Qualche giorno dopo un repubblichino si vantava pubblicamente di avere fatto parte del plotone di esecuzione. Non tardò molto ad essere raggiunto dalla giustizia partigiana. Altri, troppi, riuscirono a farla franca. I nomi ed i volti delle vittime dell’eccidio sono raccolti nel Sacrario in piazza Nettuno insieme a quelli di tutti gli altri Caduti nella Resistenza e nel Monumento ossario della Certosa di Bologna a perenne memoria del loro sacrificio.
Ezio Cesarini era nato nel 1897 a Montebello Vicentino. Da giovane militò nelle file socialiste. La sua vita giornalistica si svolse all’interno del “Resto del Carlino” presso il quale venne assunto prima come segretario di redazione nel 1925 e successivamente come cronista. Pur dovendo soggiacere alle dure regole imposte dalla dittatura egli manifestò in più occasioni la propria avversione al regime. Per questo i fascisti gli resero la vita difficile. Non mancarono di perquisire la sua casa. Nel 1938 in una via del centro incontrò casualmente l’ex sindaco socialista di Bologna Francesco Zanardi che salutò stringendogli la mano. La cosa non passò inosservata e gli costò il licenziamento in tronco. Ritornò al lavoro dopo non poche difficoltà.
Il 26 Luglio 1943, giorno successivo la caduta del fascismo, su unì a un corteo di operai che percorse via Indipendenza fino a Piazza Vittorio Emanuele, l’attuale Piazza Maggiore, dove si era raccolta una folla festante. Sollecitato da amici antifascisti che conoscevano le sue vicissitudini, egli prese brevemente la parola inneggiando alla libertà. Dopo l’8 settembre, insieme a pochi altri, rifiutò di tornare al “Carlino” che si era schierato apertamente con i tedeschi e la Repubblica fascista di Salò.
Necessitando di mezzi economici per la famiglia, chiese che gli venisse corrisposta la liquidazione. Recatosi presso l’amministrazione del giornale si accorse, troppo tardi, che gli avevano teso una trappola: i militi della GNR lo arrestarono e lo trascinarono nel carcere di San Giovanni in Monte. Venne fucilato insieme ad altri sette antifascisti il 27 gennaio 1944. Gli è stata conferita la Medaglia d’Argento al V.M. alla Memoria.
Poco prima di essere fucilato Ezio Cesarini chiese carta e penna alla direzione del carcere per scrivere queste tre lettere.
Mia adorata Enna,
è giunta la grande ora della nostra separazione. Ti ringrazio per l’affetto e l’amore avuto per me. Ti chiedo perdono per il male che qualche volta ti ho fatto. Rassegnati alla sorte. Continua ad educare i figli con amore. Non vendette. A Cesarina, Metello e Vittoria, miei adorati figli, un bacio eterno. Baci, tuo Ezio.
Caro fratello Mario,
le mie ultime volontà. Porta un mazzo di fiori alla tomba dei nostri genitori. Se la mia salma non sarà possibile recuperare, l’anima mia, come il mio ultimo pensiero va a loro e lì troverete il mio spirito. Dì a Enna che conservi quel Cristo lasciato da nostro padre. Quel Simbolo di sacrificio è mio. Non mi sono confessato ma ho baciato Cristo in croce. Il sacerdote mi ha concesso ugualmente l’assoluzione.
(segue uno spazio censurato)
Assisti la mia famiglia e ricordami ai buoni. Baci. Tuo fratello Ezio
Ore 12 del 27/1/1944. Mio caro fratello Mario,
prima di morire ho fatto acquistare un fiasco di vino che lo ha pagato il latore del presente. Non voglio lasciare debiti e ti prego di rimborsare la spesa. Baci. Ezio
Alessandro Bianconcini nasce a Imola il 7 agosto 1909. Diplomatosi alla scuola musicale “Baroncini” fu detto il “Professore” per il titolo acquisito. Nel 1929, in pieno regime fascista, si iscrisse al PCI e svolse attività clandestina fra i giovani lavoratori. Divenne segretario della gioventù comunista imolese. Per sfuggire alle rappresaglie fasciste nel 1935 emigrò in Francia e nell’ ottobre del 1936 accorse a combattere in difesa della Repubblica spagnola. Nel novembre dello stesso anno venne gravemente ferito nella battaglia di Pazuelo. Dopo alcuni mesi di ricovero in ospedale rientrò in Francia per la continuazione delle cure necessarie. Dimesso dal sanatorio nel 1939 venne arrestato dalla polizia francese.
Nel 1941, con l’occupazione nazista della Francia, venne nuovamente arrestato dalla polizia tedesca ed incarcerato a Parigi. Tradotto forzosamente in Italia, nel 1942 passò dal carcere di Susa (Torino) a quello di San Giovanni in Monte, dove subì vessazioni e torture. Venne poi condannato a cinque anni di confino dal Tribunale Speciale e tradotto nell’isola di Ventotene dove si riacutizzarono i postumi della vecchia malattia.
Caduto il fascismo e liberato il 23 agosto 1943, tornò a Imola dove insieme all’attività di partito fu tra i primi organizzatori della Resistenza, prima nella Guardia nazionale, poi nei GAP, gruppi di azione patriottica. Il 9 gennaio 1944 fu catturato dai repubblichini di Salò ed incarcerato nella Rocca Sforzesca dove subì maltrattamenti e torture. Il 26 gennaio, quando si seppe della uccisione del federale fascista Facchini venne tradotto nel carcere di San Giovanni in Monte a Bologna insieme ad altri tre antifascisti imolesi (Alfredo Bartolini, Romeo Bartolini e D’Agostino Francesco). Qui, dopo un processo farsa, venne fucilato al Poligono di tiro di via Agucchi.
In suo onore, nell’agosto del 1944, la 4^ brigata d’assalto Garibaldi assunse il nome di 36^ “Brigata Garibaldi Bianconcini”, formazione che ha scritto pagine gloriose indimenticabili nella lotta di Liberazione nazionale. L’esempio e la lezione del “Professore” sono stati raccolti e portati avanti dai partigiani anche in suo nome e sono ancora vivi nella nostra memoria.
Mia cara Adelfa,
ti dò il mio ultimo addio. Sono stato condannato a morte dal Tribunale Militare e fra poche ore avrà luogo l’esecuzione. Muoio con l’animo tranquillo perché nella vita ho sempre agito secondo la mia coscienza.
Sono dolente di darti questo dispiacere. Tu sai che ti ho sempre voluto bene e il mio ultimo desiderio è quello di abbracciarti ancora una volta.
Conforta mio padre e nel pronunciare questo nome mi sento stringere il cuore.
Sono convinto che non lo abbandonerai. Non ho più tempo. Salutami tutti gli amici.
Tanti abbracci a babbo e a te ti bacio lungamente.
Tuo, Alessandro
La lettera venne recapitata alla moglie dal cappellano del Carcere di San Giovanni in Monte che in quel tempo era don Giuseppe Elli. Nell’aprile del 1944 don Giuseppe Elli venne arrestato dalle SS e deportato a Mauthausen e Dachau
Nel dopoguerra, nell’atrio dello stabilimento tipografico de “il Resto de Carlino, quando ancora aveva sede in via Gramsci, venne apposta a cura dell’ASEM (Associazione Stampa Emilia Marche) una lapide con la seguente epigrafe:
Ezio Cesarini, giornalista
lottò e morì perché l’Italia fosse libera.
Iniqua sentenza
lo trasse davanti al plotone fascista
il 27 gennaio 1944.
L’Associazione Stampa Emiliana
fiera del suo glorioso Caduto
ricorda con lui il pubblicista
Nino Giovanni Brizzolara
vittima dello stesso odio di parte.
Quando lo stabilimento venne abbattuto e il “Carlino” da via Gramsci si trasferì in via E.Mattei la lapide venne rimossa ma non risulta sia stata apposta nella nuova sede del giornale. Dimenticanza o ragioni meno nobili? Crediamo che l’ASEM e l’Ordine dei Giornalisti dovrebbero chiedere conto a chi di dovere di questa sparizione e nel contempo esigerne la ricollocazione nel luogo dovuto. Nel nome di Ezio Cesarini e Nino G.Brizzolara. E’ chiedere troppo ?