Operai, Operaie, Tecnici, Impiegati!
All'appello dei Comitali Segreti di Agitazione gli operai dei Piemonte, della Lombardia, del Veneto, della Liguria, di Bologna e di Firenze e di tutti i centri industriali dell'Italia occupata dai tedeschi, sono scesi unanimi in isciopero.
Con la loro compattezza e con la loro combattività, essi hanno dimostrato che le rivendicazioni per le quali erano stati chiamati a lottare erano delle esigenze urgenti, vitali e generali; essi hanno dimostrato la loro ferma intenzione di difendere il proprio pane e la loro dignità dì lavoratori; essi hanno manifestato ancora una volta tutto il loro odio ed il loro disprezzo per il fascismo e l'unanime avversione di tutti gli italiani contro i tedeschi che occupano, spogliano e rovinano il nostro paese.
OPERAI, OPERAIE, TECNICI ED IMPIEGATI!
Che cosa chiedevamo? Un po' più di pane, delle razioni sufficienti per vivere, i grassi, il sale e le verdure che mancano, un po' di zucchero ed un po' più d latte per i nostri bambini ed i nostri ammalati.
Come è stato risposto alle nostre richieste?
I padroni, questi vampiri dei lavoratori, questi profittatori della guerra e dell'occupazione tedesca si sono persino rifiutati di trattare con gli operai. Sotto la protezione delle baionette straniere, essi intendono continuare ad accumulare miliardi sulle miseria dei lavoratori. Non un centesimo essi intendono mollare ai
loro dipendenti che muoiono di fame e di stenti.
I fascisti che tanto cianciano di repubblica sociale e di socializzazione, si sono subito schiarati, come sempre, dalla parte dei padroni. Alle nostre richieste di pane, hanno offerto piombo; alla rivendicazione del rispetto della dignità del lavoratore, hanno risposto insultando alle nostre pene e raddoppiando le loro violenze. Alla
nostra rivendicazione di libertà e di indipendenza nazionale hanno risposto servendo ancora più ignomisamente l'occupante straniero della Patria.
I tedeschi, che hanno fatto dell'Italia il loro campo di battaglia e la loro fonte di rifornimenti, hanno chiaramente dimostrato che se ne infischiano dei bisogni e delle esigenze del nostro popolo: essi non rinunciano o non rinunceranno ad una goccia di sudore, ad una goccia di sangue, se non costretti dalla forza.
OPERAI, OPERAIE, TECNICI ED IMPIEGATI !
Così non si può andare avanti: i soldi che ci danno non bastano nemmeno per comprare il poco che ancora si può trovare; le razioni che ci assegnano non bastano alle più elementari esigenze della vita; non si trova più nemmeno l'indispensabile per cucinare: grassi; sale e verdura.
I padroni, i fascisti ed i tedeschi, in ignobile combutta, sono ben decisi a non concederci nulla.
Che fare? Piegare allo prepotenze nemiche e rassegnarci a morire di stenti? No.
Abbiamo chiesto con lo sciopero che si prendesse in considerazione la nostra situazione disperata, che ci si venisse incontro con qualche concessione. Ci hanno risposto mostrandoci le armi. Alla nostra manifestazione pacifica, ci hanno risposto con la dichiarazione di guerra, con una sfida alla lotta suprema.
Ebbene: dobbiamo accettare la sfida, la lotta a fondo, con tutti i mezzi, la lotta armata per difendere la nostra esistenza, i nostri diritti.
OPERAI, OPERAIE, TECNICI ED IMPIEGATI!
I Comitati segreti d'agitazione che vi hanno chiamati allo sciopero, vi chiamano ora alla preparazione di questa lotta decisiva. Essi vi dicono: Rientrate nelle offìcine, negli uffici; riprendete il lavoro! ma rientrate non per capitolare di fronte alla prepotenza avversaria, ma per prepararvi a rispondere alla forza con la forza,
alle armi con le armi. Rientrate per preparare assieme a tutto il popolo un nuovo e più grande movimento; lo sciopero insurrezionale, l’insurrezione nazionale.
Non i nostri nemici, ma noi siamo forti. I nostri nemici sono feroci perchè sono deboli, perchè sentono arrivare la fine. Noi siamo forti perchè abbiamo con noi tutto il popolo, perchè rappresentiamo la forza decisiva della nazione, perchè siamo i soli capaci di salvare il nostro paese dalla catastrofe nella quale fascisti e sfruttatori l'hanno gettato, perche sono con noi i popoli di tutti i paesi, i partigiani e gli eserciti vittoriosi delle potenze democratiche, alla cui testa l'esercito sovietico porta colpi formidabili alla fortezza tedesca della schiavitù.
Più che mai dobbiamo avere fiducia nella nostra forza e nella vittoria. Restiamo uniti come lo fummo nei giorni scorsi! Rafforziamo la nostra organizzazione clandestina! Trasformiamola in organizzazione per la lotta armata, per l'insurrezione!
Seguiamo l'esempio dei distaccamenti e delle brigate di partigiani. E avanti fino alla vittoria.
Il Comitato Segreto di Agitazione del Piemonte, della Lombardia e della Liguria.
Tratto da: L’Unità num. 2 – 3 dell’8 Marzo 1944
Per gentile concessione del Sig. Enrico Peyretti
Una precedente versione di questo testo, qui largamente riveduta, corretta e integrata con nuovi riscontri, è comparsa in appendice alla traduzione italiana del libro di Semelin, Senz'armi di fronte a Hitler, Sonda, Torino 1993.
Nella primavera del 1943, uno degli eventi italiani influenti in modo decisivo sul regime fascista e sull'andamento della guerra è il grande sciopero operaio nell'area industriale torinese, e soprattutto alla Fiat. Il regime fascista era riuscito a spoliticizzare anche la classe operaia torinese: su circa 21 mila operai della Fiat, solo 100 o 200 avevano, all'inizio del 1943, la tessera segreta del partito comunista. Questo piccolissimo nucleo riuscì a trascinare allo sciopero, per un'intera settimana, dall'8 al 13 marzo 1943, circa 90-100 mila operai torinesi e inoltre consistenti aliquote di operai di tre fabbriche milanesi (Pirelli, Borletti e Falck). «Il fatto notevole fu che allo sciopero tutti parteciparono: fascisti e non fascisti, persino quelli che facevano parte della milizia», scriverà nelle sue memorie il capo della polizia fascista, Carmine Senise, e il ministro delle Corporazioni dirà che in
qualche caso i fascisti «fomentavano» gli scioperi.
Il successo dello sciopero viene spiegato con gli obiettivi non direttamente politici (che non sarebbero stati compresi dalla massa degli operai, molti dei quali facevano ancora credito di buone intenzioni a Mussolini, attribuendo i mali del paese a gerarchi corrotti), ma più vitali: migliori razioni alimentari, indennità di caro-vita, assistenza agli sfollati, nuove abitazioni per le famiglie senza tetto a causa dei bombardamenti, possibilità di lasciare le fabbriche e riunirsi ai familiari in caso di allarme aereo. In realtà, insieme a queste, erano ben presenti motivazioni politiche per la pace separata, contro la guerra e contro il fascismo, come risulta dai molti documenti pubblicati da Spriano. Tra questi una lettera di Farinacci a Mussolini: «Se ti dicono che il movimento ha assunto un aspetto esclusivamente economico ti dicono una menzogna».
I sindacalisti fascisti finsero di condividere le richieste non politiche pur di far cessare lo sciopero e Mussolini promise di accoglierle, ma non poté mantenere le promesse a causa della guerra. Alle vecchie privazioni si aggiunsero repressioni poliziesche sugli scioperanti: centinaia di arresti a Torino e Milano e decine di denunce al Tribunale speciale. Tuttavia, si verificò anche il rifiuto di forze dell'ordine e truppa di sparare sugli scioperanti.
Ciò rendeva evidente la necessità della pace e l'impossibilità di raggiungerla sotto il fascismo. I comunisti, che avevano sostenuto questa tesi dall'inizio, acquistarono nuovo prestigio: il loro giornale clandestino L'Unità prese a
circolare nelle fabbriche e centinaia di operai si iscrissero al partito. I comunisti «arrivarono a conquistarsi un vasto appoggio popolare e a mietere un grosso successo politico senza sacrificare una sola vita umana».
Così, prima degli industriali, prima dei gerarchi del Gran Consiglio e prima del Re (autori, questi, del colpo di stato del 25 luglio, dopo lo sbarco alleato in Sicilia), gli operai italiani toglievano fiducia al fascismo, grazie ad una
lotta condotta con l'arma nonviolenta dello sciopero, dimostratosi in grado di provocare e svelare la perdita di legitimità di un potere dittatoriale.
«Solo chi ignora che il regime fascista era stato costruito anche e soprattutto per impedire alle classi lavoratrici di organizzarsi e di lottare, può sottovalutare il significato politico del primo grande sciopero, dopo un ventennio, del proletariato di fabbrica in Italia». Esso fu «dopo quello di Amsterdam del febbraio 1941 contro la
deportazione degli ebrei, il primo atto di lotta aperta della classe operaia europea contro il fascismo».
Come si vedrà tra poco dall'elenco pur incompleto di Semelin, lo sciopero torinese del 1943 non fu soltanto il secondo in Europa. E' importante, e non riduce il valore di questa lotta, vedere che essa rientra in una serie di azioni nonarmate difficili, ma possibili e praticate non senza efficacia, in tutta l'Europa occupata.
Sul carattere nonarmato dello sciopero politico del marzo 1943 merita registrare anche le seguenti osservazioni di Tim Mason: «Che si ricorresse a questa particolare forma di resistenza - e non a un'altra basata sullo scontro violento - si dovette in parte al fatto che le autorità fasciste non tentarono di soffocare gli scioperi dentro le fabbriche e non diedero l'ordine di sparare. (...) Mussolini (...) blaterava di far fucilare gli scioperanti, rimproverava ai subordinati la mancanza di polso, ma non diede l'ordine. Entro certi limiti - ristretti o ampi? - si può dire che i rispettivi margini di autorestrizione delle forze contrapposte vennero definiti, in un certo senso "negoziati", fin dalle primissime fasi del conflitto». Il Partito comunista, specialmente l'organizzatore dello sciopero Clocchiatti, avrebbe voluto una manifestazione «di donne e giovani» in piazza Castello, ma altri si opposero a quest'azione «semplicemente suicida», che non ci fu. Lo sciopero rimase interno alle fabbriche, per tacito accordo tra scioperanti e autorità.
Dopo i grandi eventi bellici e politici del 1943 e ormai sotto l'occupazione nazista, riprendono gli scioperi alla fine del '43. E' importante vedere i loro effetti nei confronti del potere nazista occupante, attraverso le reazioni
di questo.
Anzitutto, le autorità militari tedesche in Italia cercano di ottenere una "volontaria" ripresa del lavoro minacciando ma non usando la forza armata, e di evitare l'intervento diretto di Berlino (Hitler aveva già trovato inconcepibile lo sciopero del marzo '43 e la debolezza del governo fascista), perchè hanno bisogno di una relativa "collaborazione" popolare per gestire l'occupazione e per ottenere la produzione militare dalle fabbriche italiane.
Dopo gli scioperi del novembre 1943, il plenipotenziario Rahn si vanta con Berlino di averli sedati con un preciso piano d'azione, consistente in realtà in concessioni salariali limitate, imposte al governo di Mussolini, ma criticate duramente da altri comandanti tedeschi. A questo punto però, una nuova ondata di scioperi si verifica a Milano e dintorni il 12-13 dicembre. Tra i capi tedeschi, insieme ad un atteggiamento più duro - che arriva a prevedere la legge marziale, l'internamento in Germania di qualche migliaio di persone e, per espressa autorizzazione del Führer, la fucilazione dei comunisti, insieme al progetto di subordinare le aziende italiane alla Wehrmacht - si trova anche l'opposizione a queste misure per mantenere la necessaria collaborazione di imprenditori e operai italiani alla produzione militare. Ne risulta un'alternanza di minacce e promesse, secondo il metodo del bastone e della carota.
Questo è già un sintomo importante tanto del condizionamento che l'occupante subisce dalla sua stessa pretesa di occupare un paese, quanto delle possibilità che, per ciò stesso, la popolazione occupata ha di resistere con l'arma nonviolenta della noncollaborazione.
Gli scioperi di fine '43 ottengono miglioramenti salariali e alimentari, ma la protesta continua. In gennaio 1944 ci sono scioperi, con una componente politica sempre più forte, in Lombardia e a Genova, dove otto comunisti sono uccisi, condannati a morte da una corte marziale italiana. E' questo il più grave fatto di sangue
della intera vicenda degli scioperi. Intanto, per effetto delle concessioni differenti tra le diverse zone e categorie e successivi complicati livellamenti, la produzione cala considerevolmente e ciò rappresenta un danno per i tedeschi occupanti, che ancora sono divisi sulle misure economiche e repressive da prendere.
Più dura è la reazione tedesca ai nuovi scioperi del febbraio: operai vengono deportati in Germania. Ma ciò non ferma il fenomeno: nel marzo 1944 un altro grande sciopero generale, il più grande della serie biennale, guidato dai comunisti, scoppiò nelle fabbriche del Nord Italia prolungandosi, completo e ininterrotto, dal 1° all'8
marzo 1944. Questo potente sciopero raccoglieva anche i frutti dei precedenti. Le rivendicazioni erano ora chiaramente politiche, con parole d'ordine quali «Via i tedeschi dall'Italia!» e «Pace subito!».
«Non si tratta soltanto di ottenere migliori condizioni economiche per la classe operaia (...), ma di andare ben più a fondo nella lotta contro il nazifascismo». I comunisti puntavano sull'insurrezione generale. L'adesione allo sciopero andò dal
50 al 100%. Il numero complessivo degli scioperanti arrivò almeno a mezzo milione. I tedeschi ricorsero ancora alla serrata delle fabbriche, ma questa volta furono d'accordo per adottare misure di estrema durezza: centinaia di arresti, minacce di fucilazione, cento persone deportate in Germania da Torino. Ma, nei fatti, la reazione fu moderata rispetto alla politica di occupazione di altri paesi: non fu necessario l'uso delle armi.
Quando Hitler seppe, giudicò troppo blande queste misure e ordinò che il 20% degli scioperanti (pari a 70.000 uomini) fosse immediatamente deportato in Germania a disposizione delle SS per essere avviati al lavoro.
Il fatto veramente straordinario, e unico per un ordine di deportazione, fu che Rahn, a proprio rischio, indusse Hitler a ritirare il suo ordine, col motivo che tale misura sarebbe stata molto controproducente: una gran parte di quei 70.000 uomini sarebbero passati alle bande partigiane, e la produzione industriale ne sarebbe stata enormemente danneggiata.
Hitler, dunque, cede a Rahn, ma indirettamente cede agli operai scioperanti e alla loro avversione ai tedeschi, subisce il coordinamento fra gli scioperi degli operai e l'azione dei partigiani.
Le conseguenze per gli operai furono in definitiva modeste: probabilmente 1.200 (il numero esatto non è certo) deportati in Germania. Questa misura fu efficace ai fini degli occupanti, perché bloccò gli scioperi fino all'aprile 1945, al momento dell'insurrezione finale. Ma è pure significativa delle possibilità di condizionamento
di un potere militare come quello nazista, da parte di un'azione noanrmata di massa: dai 70.000 deportati voluti da Hitler ai 1.200, lo 0,5% invece del 20%; da un ordine furioso di Hitler al caso unico di un ritiro della volontà del dittatore in materia di deportazione.
Lo sciopero non ebbe risultati economici, non divenne insurrezione generale, ma fu un grande segnale politico. Il suo vero significato «fu di aver messo in evidenza in Italia e all'estero il forte radicamento delle forze antifasciste, di aver dimostrato la forza del Partito comunista e di aver rafforzato lo spirito di opposizione della classe operaia».
Ragionieri parla brevemente di questo sciopero del marzo '44 in una sola pagina, salvo mio errore, ma fa un'affermazione significativa in ordine al carattere non solo armato della Resistenza: «in questo intreccio di scioperi e guerriglia, di azione militare e rivendicazioni sociali risiede il tratto peculiare e distintivo della Resistenza italiana». Battaglia riferisce episodi di resistenza nonarmata opposta da operai anche molto giovani alla repressione che esercitava una diretta minaccia armata, alla Oto di La Spezia e alla Ducati di Bologna.
Lutz Klinkhammer, in un convegno sulla Resistenza nonarmata, giudica questa mobilitazione antifascista delle masse operaie «presagio di una massiccia resistenza civile senz'armi». Nel volume già ampiamente citato, questo principale studioso dell'occupazione tedesca in Italia sottolinea il valore politico di questa forma nonarmata di resistenza: «Come dimostrazione politica, lo sciopero generale ebbe una grandissima importanza. Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall'esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. E non fu soltanto (assieme a quello dell'anno precedente) il più importante sciopero in Italia dopo vent'anni di dominio fascista, fu anche il più grande sciopero generale compiuto nell'Europa occupata dai nazionalsocialisti».
Questa valutazione di Klinkhammer corregge quella ripetuta per anni da diversi storici italiani, cioè che lo sciopero italiano del '44 sarebbe stato «l'unico grande sciopero dell'industria nell'Europa occupata dai nazisti». E' un giudizio che non rende giustizia all'intera resistenza nonarmata europea. Non si riduce l'importanza dello sciopero italiano se si ricorda che non fu l'unico nell'Europa sotto dominio nazista.
Jacques Semelin, col libro Senz'armi di fronte a Hitler, raccogliendo ed analizzando le forme sociali di lotta nonarmata al nazismo, ci dà nello stesso tempo la più completa storia che abbiamo finora di tali azioni. Egli ricorda i seguenti scioperi: Paesi Bassi 25-26 febbraio 1941, Belgio 10-20 maggio 1941, Francia 27 maggio-9 giugno 1941, Lussemburgo 31 agosto-4 settembre 1942, Francia ottobre-novembre 1942, Danimarca agosto 1943, Paesi Bassi aprile-maggio 1943.
Per Semelin, lo sciopero francese del 1941 fu «il più importante movimento di massa della Francia occupata» e «il primo che abbia messo in questione il principio dell'occupazione». Vi parteciparono circa 100.000 minatori, pari all'80%. Dello sciopero nei Paesi Bassi del 1943, Semelin scrive che fu «senza dubbio il più grande sciopero della storia dell'occupazione nazista in Europa, perché si stima che vi presero parte circa mezzo milione di persone».
Ma questa è la valutazione minima del numero degli scioperanti italiani del 1944. Dunque, lo sciopero italiano del 1944 fu più grande di quello dei Paesi Bassi del 1943 e quindi il più grande in assoluto sotto occupazione nazista. Non l'unico, dunque, ma il più importante, si deve giustamente dire dello sciopero italiano del 1944, come ben riconosce Klinkhammer.
D'altra parte, Semelin ricorda soltanto in una nota gli scioperi nell'Italia del Nord, «anch'essi talvolta massicci», ma si riferisce esclusivamente ai «grandi scioperi insurrezionali combinati con azioni di guerriglia urbana», cioè alla disfatta finale degli occupanti nazisti. Dunque non tiene conto di quelli delle due primavere 1943 e 1944, di cui abbiamo rilevato l'importanza. Bisogna riconoscere che il secondo, il più importante, è oltre il periodo storico 1939-1943 a cui si limita il lavoro di Semelin, il quale però, come ha ricordato gli scioperi del 1945, poteva registrare questo del 1944.
Insomma, diversi storici italiani ignorando gli altri scioperi nell'Europa occupata, Semelin trascurando quelli italiani, testimoniano che l'informazione degli storici sulla resistenza nonviolenta al regime nazista è ancora parziale, persino quando, come Semelin, vi si dedicano specificamente e meritoriamente. C'è ancora da scavare nella miniera delle lotte nonviolente di tutti i tempi, trascurate dalla storiografia più affermata.
Posso indicare qualcosa di più sugli scioperi in Danimarca, di cui Semelin sottolinea l'importante effetto politico. J. Bennet riferisce che un membro dello stato maggiore tedesco occupante scrisse che in seguito a quegli scioperi e sabotaggi dell'agosto 1943, «la reputazione dell'esercito tedesco era scaduta e aveva toccato il fondo».
Bennet riferisce anche di un altro sciopero generale (che non compare nel libro di Semelin, limitato al periodo '39-'43), quello di Copenhagen nel giugno 1944, sciopero che costrinse i tedeschi a desistere dalla repressione e a fare concessioni. La stessa informazione, con altri particolari, è data da J.H. Barfod. J. Haestrup, nel breve libretto considerato il più autorevole sulla resistenza danese, registra quello che fu l'effetto generale della lotta, ma principalmente degli scioperi generali e diffusi dell'agosto 1943: «la ferita politica e psicologica all'autorità di occupazione, dovuta al fatto che la Danimarca, immaginata e proclamata [dai tedeschi, n.d.r.] modello di protettorato (...), distrusse questa immagine (...). Questo smascheramento, notato dagli alleati, condusse ad un crescente riconoscimento della Danimarca come alleato de facto».
Torniamo allo sciopero italiano del 1944. E' abbastanza evidente, in questo caso storico, la forza di un mezzo classico di difesa nonarmata, quale è lo sciopero, usato da una componente sociale compatta e consapevole; forza che si dimostra in grado di mettere in una singolare difficoltà anche i metodi repressivi di Hitler, sia pure grazie alla circostanza, in sé contraddittoria, della collaborazione di questi operai con l'esercito tedesco, che ne aveva assoluto bisogno. Il fatto di questo sciopero si presenta, come ogni fatto storico, circostanziato e determinato, ma è sufficiente a provare, insieme a tanti altri, che mezzi nonarmati possono bloccare la potenza anche di un regime militare feroce al massimo grado.
Nel 1993 e 1994, le rievocazioni degli scioperi nel cinquantenario hanno visto gli aspetti di classe, di fabbrica, il significato antifascista e contro la guerra, ma (salvo mio errore) non hanno colto ciò che qui intendiamo sottolineare, il valore di un mezzo di resistenza e lotta nonviolenta contro il nazismo. Certamente per i
limiti della mia informazione, cui sarei lieto di poter rimediare, non mi risulta che la comunità accademica degli storici, in occasione del cinquantenario dell'inizio della Resistenza e dello sciopero del 1944, abbia dimostrato, salvo poche eccezioni, questa sensibilità.
Aldo Capitini seppe cogliere subito il valore di quegli scioperi come parte costitutiva della Resistenza (anche se vedeva in questa, con qualche apprensione, la lotta di una coscienza di minoranza). La vigilia della capitolazione della Germania, egli scriveva: «Questa è la vittoria della minoranza che per vent'anni è stata antifascista, dei giovani che hanno combattuto nelle bande dei patrioti, dei lavoratori che hanno scioperato contro il governo fascista del '44. E' la pace della moltitudine italiana, ma non è la sua vittoria». Perciò Capitini si domandava:
«Sono gli uomini preparati a tutti questi atti che la pace esige per stabilirsi durevole su tutta la estensione dei continenti e degli oceani?».
Potremmo attualizzare la sua domanda, senza voler rispondere: è rimasta la forza del lavoro capace, o almeno si prepara a diventarlo, di lottare per conquistare, insieme ai propri diritti vitali e al proprio benessere, il diritto generale e basilare alla pace, anche negando la propria collaborazione all'apparato militar-industriale, che di continuo genera guerre nel mondo?
Naturalmente, passando dalla storia alla strategia, ci si deve chiedere se i mezzi nonviolenti sarebbero sufficienti a far cadere, e non solo a bloccare in un singolo atto o periodo o luogo, un regime violento come quello nazista. Nel cercare una risposta, bisognerà considerare che singoli ma numerosi episodi di resistenza nonarmata efficace in condizioni molto difficili, quali furono in grado massimo quelle imposte dal dominio nazista, suggeriscono che molte ulteriori possibilità latenti possono essere sviluppate se questi metodi vengono scelti a preferenza di quelli armati (più dolorosi e costosi per le popolazioni in termini fisici immediati e in prolungate conseguenze morali), se vengono studiati e sperimentati per tempo, in modo da costituire una cultura della difesa e una strategia nonviolente, strutturate almeno quanto lo sono finora la difesa e la strategia militari.
E bisognerà pure ricordare che regimi autoritari e violenti sono stati prima erosi e poi rovesciati, senza uso di violenza, proprio in anni recenti, e particolarmente nel mirabile 1989, dalla crescita di cultura, di coscienza
autonoma e quindi dal rifiuto del consenso popolare. Certamente, ciò si è verificato in concorso con circostanze favorevoli che hanno indebolito quei regimi. Ma, anzitutto, nelle vicende storiche, tutto è sempre condizionato dalle circostanze. Poi, tra le condizioni, va riconosciuto un posto primario alla cultura e coscienza politica, dalla cui qualità e orientamento dipendono anche gli effetti dei fattori materiali (così come dalla loro debolezza deriva spesso la precarietà di certe sofferte conquiste).
La cultura della resistenza nonarmata ad ogni potere prevaricante, esterno o interno ad un paese, è il mezzo più sicuro e continuativo di difesa dei diritti umani, tra cui è supremo il diritto alla pace. Questo è vero persino nelle circostanze più sfavorevoli, come possiamo leggere nella storia, indagata con sguardo libero e nuovo.