di Milovan Pisarri
Quando l'8 dicembre 1941 a Belgrado si aprivano le porte del campo di Sajmište [N.d.A. Riprendo in questo saggio i temi già trattati nel secondo numero di questa rivista da Bruna Bianchi nella sua Introduzione alle Lettere dal campo di Sajmište alla luce della storiografia serba. Le opere su campo di Sajmište infatti sono prevalentemente in serbo, così come le testimonianze e i rapporti. La più dettagliata, quella che contiene la bibliografia più completa, è l'opera di M. Koljanin, Nemacki logor na beogradskom Sajmištu 1941-1944 (Il campo di concentramento tedesco nella zona fieristica di Belgrado 1941-1944), ISI, Beograd 1992.], erano trascorsi solo pochi mesi dalla capitolazione della Jugoslavia e dall'occupazione del suo territorio [N.d.A. In aprile il Terzo Reich aveva annesso direttamente solo la parte settentrionale dell'odierna Slovenia, ma di fatto, manteneva il controllo della Serbia, di una parte del Kosovo, del Banato, regione abitata da una consistente minoranza tedesca. All'Italia toccò la parte meridionale della Slovenia e molte zone del litorale dalmata; in Montenegro l'Italia istituì un'amministrazione civile e poi militare e unì il resto del Kosovo al protettorato di Albania. La Bulgaria occupò la Serbia sud-orientale e gran parte dell'odierna Macedonia, l'Ungheria le regioni della Backa, Baranja, Medumurje e Prekomurje; infine in Croazia venne instaurato lo Stato Indipendente di Croazia, il cui territorio si estendeva fino alle porte di Belgrado e in Bosnia fino al fiume Drina. Questo Stato dipendeva dalle direttive naziste, benché risultasse sotto la sfera d'influenza italiana.]. In aprile in Serbia si era insediato il governo collaborazionista del generale Milan Nedic che dipendeva direttamente dal comando tedesco [N.d.A. M. Kreso, Njemacka okupaciona uprava u Beogradu 1941-1944 (L'amministrazione dell'occupazione tedesca a Belgrado 1941-1944), Istorijski Arhiv Beograda, Beograd 1979, pp. 67-68.]. La direzione militare, quella della polizia, dell'economia e della diplomazia, benché formalmente presiedute da rappresentanti serbi, erano infatti sottoposte alle direttive tedesche [N.d.A. Tutto l'apparato dipendeva dai vertici nazisti in Serbia, in primo luogo da Felix Bencler, plenipotenziario in Serbia del Ministero degli affari esteri del Terzo Reich, da Harald Turner, capo del Comando militare-amministrativo e dal generale Böhme, plenipotenziario e comandante delle forze armate tedesche in Serbia (sostituito il 6 dicembre dal generale Bader). ].
All'inizio dell'invasione era già stato creato l'Einsatzgruppe Sipo und SD (EG: Operativna grupa Policije bezbednosti i Službe bezbednosti), un organo di poliziacomandato dal colonnello delle SS Wilhelm Fuchs. Questa struttura, inizialmente operativa sull'intero territorio jugoslavo e poi, dall'ottobre del 1941 solo in Serbia, rispondeva alla Direzione principale di sicurezza del Reich (RSHA) [N.d.A. Direttamente sotto il comando della sezione IV B4 di Belgrado era la polizia ebraica, ovvero il Commissariato per gli ebrei, diretto da Jovan Nikolic che formalmente apparteneva all'amministrazione della città in quanto organo di polizia serba e che aveva a sua volta un reparto per la questione ebraica (UGB), comandato da Otto Winzet. Questi organi amministrativi mantenevano i rapporti con la Presidenza della Comunità ebraica guidata da Benjamin Flajšer e in seguito da Emil Dojc, e Samuel Demajo (M. Koljanin p. 21).]. Al suo interno fu creata una sezione speciale per l'eliminazione degli ebrei (la sezione IV B4), alle dirette dipendenze della Gestapo di Berlino [N.d.A. V. Glišic, op. cit., p. 22.]. Essa era guidata dai tenenti delle SS Fritz Stracke e Hans Schlutt. In questa sezione prestavano servizio anche Herbert Andorfer ed Edgar Enge ai quali sarebbe stata affidata la direzione del campo di Sajmište .
Già al momento dell'invasione la popolazione ebraica era stata posta sotto il diretto controllo delle SS [N.d.A. K. Browning, op. cit., p. 408.]. Nell'intero territorio della Jugoslavia anteguerra vivevano circa 75.000 ebrei [N.d.A. A questti si aggiunsero, fino all'invasione nazi-fascista, circa 5.000 - 6.000 ebrei fuggiti da Germania, Austria, Cecoslovacchia e Polonia. Alla fine del conflitto se ne conteranno 15.000 (Koljanin, op. cit., p. 20).]. Limitando l'analisi alle zone da cui provennero molti internati nel campo di Sajmište, ovvero Serbia, Banato e Kosovo, il numero degli ebrei è stato valutato rispettivamente in 12.500, 4.200 e 550 persone [N.d.A. J. Romano, Jevreji Jugoslavije 1941-1945. Žrtve genocida i ucesnici narodnooslobodilackog rata (Gli Ebrei della Jugoslavia 1941-1945. Le vittime del genocidio e i membri della lotta di liberazione nazionale), Jevrejski Istorijski Muzej, Beograd 1880, p. 14.]. Nella sola Belgrado vivevano ben 11.780 ebrei [N.d.A. L. Ivanovic, Teror nad Jevrejima u okupiranom Beogradu 1941-1942 (Il terrore sugli Ebrei nella Belgrado occupata 1941-1942), Godišnjak Grada Beograda, XIII, 1966, p. 293.].
L'amministrazione tedesca si preoccupò immeditamente di "risolvere la questione ebraica", una questione direttamente collegata a quella partigiana [N.d.A. I primi nuclei partigiani si erano formati immediatamente dopo l'invasione. M. Koljanin, op. cit., p. 21.]. Il 16 aprile, infatti fu ordinata la registrazione di tutti gli ebrei, pena la morte per chi non si fosse presentato [N.d.A. Ivi p. 23.]. Molti, tuttavia (2.345 persone secondo alcuni, 3.816 secondo altri [N.d.A. V. Glišic, Teror i zlocini nacisticke Nemacke u Srbiji 1941-1944 (Il terrore e i crimini della Germania nazista in Serbia 1941-1944), Institut za istoriju radnickog pokreta Sribje, Beograd 1970, p. 264.]) riuscirono a fuggire rifugiandosi per lo più all'interno del paese o nelle zone d'occupazione italiana.
Immediatamente dopo la registrazione furono approvare le misure antiebraiche tra cui il divieto agli ebrei di rivolgersi agli ospedali pubblici [N.d.A. J. Romano, op. cit., p.14.] e il sequestro degli immobili, affidati alla gestione del Commissariato per gli immobili ebrei del I Reparto del Comando economico diretto dal plenipotenziario per l'economia in Serbia, generale Franz Neuhausen [N.d.A.M. Koljanin, op. cit., p. 25.]. Nel giugno dello stesso anno altri provvedimenti imposero l'obbligo della fascia gialla al braccio e il lavoro forzato [N.d.A. V. Glišic, op. cit., p. 82.].
I primi campi di detenzione per gli uomini sorsero a Veliki Beckerek (nel Banato) e nella città di Šabac già alla fine di aprile 1941, seguiti poi da altri campi a Pancevo e a Novi Becej[N.d.A. M. Koljanin, op. cit., p. 30.].La Fiera si trovava di fronte al centro della città di Belgrado, sorgeva su una bassa collina ed era ben visibile dall'oltre Sava. Eretta nel 1936, era costituita da una torre centrale circondata da cinque padiglioni principali, il più grande dei quali, il numero 3, aveva una superficie di 5.000 metri quadrati. Gli altri padiglioni erano di minori dimensioni (padiglione della fondazione Nikola Spasic, padiglione italiano, ungherese, turco, cecoslovacco, rumeno, tedesco, sovietico e padiglioni Hanza e Ribarski). Durante il bombardamento di Belgrado dell'aprile 1941 la Fiera era stata danneggiata [N.d.A. Ivi, p. 50.] e perché potessero contenere migliaia di persone, i suoi padiglioni dovevano essere riparati e riadattati. I lavori, a cui furono destinati 200-300 ebrei internati a Topovske šupe, furono affrettati e approssimativi: il campo venne circondato da reti di filo spinato alte due metri, all'interno dei padiglioni vennero istallate alcune stufe; con semplici assi di legno furono costruiti tavolacci a due o tre piani, della larghezza di circa un metro; alle finestre, ormai senza vetri, furono applicate tavole di legno e il tetto riparato alla meglio [N.d.A. Ivi p. 53.].
La deportazione ebbe inizio l'8 dicembre 1941 [N.d.A. La decisione dell'internamento non fu presa che all'inizio di dicembre, poiché nel mese di novembre tutte le forze tedesche e collaborazioniste erano impegnate nella preparazione dell'offensiva contro Užice, una città a sud-ovest di Belgrado liberata dai partigiani, protrattasi dal 25 novembre all'1 dicembre (M. Koljanin, op. cit., p. 48).]. A quell'epoca in Serbia erano rimasti in vita le donne, i vecchi e i bambini nelle città di Belgrado, Niš e altre località, i malati nell'ospedale ebraico di Belgrado, un gruppo di uomini (circa 200-300) nel campo di Topovske šupe, e coloro che erano riusciti a rifugiarsi nell'interno del paese o che si erano uniti alle forze partigiane [N.d.A. M. Koljanin p. 56.].
Nel giro di pochi mesi gran parte degli uomini ebrei erano stati messi a morte, per evitare che andassero a ingrossare le fila dei partigiani [N.d.A. Ivi, p. 26.]. Tra rappresaglie e fucilazioni, infatti dall'aprile al novembre del 1941 circa 5.000 uomini avevano perso la vita [N.d.A. Ivi, p. 39.].
Il 7 dicembre la polizia collaborazionista aveva comunicato a tutti gli ebrei di Belgrado l'ordine di presentarsi il giorno dopo alle ore 9 del mattino presso la sede della polizia speciale per gli ebrei in via Džordž Vašington 21, portando con sé solamente i bagagli che potevano trasportare, il cibo sufficiente per tre giorni e una somma di denaro massima di cento dinari; le chiavi di casa unitamente ad un cartellino con l'indirizzo sarebbero state conservate nei locali della polizia [N.d.A. Ivi, p. 56; L. Ivanovic, op. cit., p. 305.].
Nel giro di pochi giorni la città si svuotò degli ebrei, deportati in un campo a poche centinaia di metri dalle loro abitazioni, in un luogo che probabilmente avevano attraversato tante volte, ma che mai avrebbero immaginato come loro futura prigione.
Migliaia di donne, bambini e anziani furono ammassati nel padiglione numero 3, il più grande, e nel numero 1; il numero 2 fu riservato ai rom e il numero 5 agli uomini che lavoravano alla sistemazione del campo; nel padiglione numero 4 venne installata la cucina e nel "Nikola Spasic" l'ambulatorio e la farmacia; il padiglione turco fu destinato alle docce e in seguito vi furono ammucchiati i cadaveri.
La torre centrale, sulla cui cima sventolava la bandiera nera delle SS, fu occupata dall'amministrazione del campo, mentre il piccolo edificio all'entrata fu riservato al comando [N.d.A. Ivi p. 57; J. Romano, op. cit., p. 83.]. La direzione del campo fu affidata al sottotenente delle SS Herbert Andorfer e al sottoufficiale Edgar Enge, alle dirette dipendenze del Gruppo operativo del colonnello Fuchs [N.d.A. Ivi, p. 67. Dal gennaio del 1942, quando l'intero sistema amministrativo tedesco e collaborazionista venne riorganizzato, il comando della struttura che dirigeva anche il campo di Sajmište passò al generale delle SS August von Meyszner, ma il responsabile diretto fu Emanuel Schäfer, nuovo comandante dell'EG (K. Browning, op. cit., p. 413).].
La guardia del campo venne affidata a due unità di polizia tedesche da cui dipendeva il cosiddetto "autogoverno" del campo, ovvero l'organizzazione ebraica. Ogni padiglione aveva una sua responsabile e un sistema di controllo; il mantenimento dell'ordine era garantito da cento ragazze sotto i ventitré anni. La Presidenza della comunità ebraica si preoccupava soprattutto del rifornimento alimentare e del censimento delle vittime [N.d.A. I rifornimenti alimentari dipendevano dal Comune di Belgrado; i referenti erano Dragoslav Jovanovic, sindaco, e Dragomir Petrovic, capo dell'amministrazione municipale (M. Koljanin, op. cit., p. 54). Queste due strutture, l'amministrazione e la Presidenza, vennero in seguito eliminate per dare una parvenza di verità alle voci secondo cui gli internati venivano spostati in un altro campo. M. Koljanin, op. cit., pp. 68 - 76.].
Secondo i dati di cui disponiamo, il 15 dicembre 1941 nel campo vi erano 5.281 persone, di queste 600 erano rom [N.d.A. Parte della comunità ebraica, circa 300-400 persone tra medici, infermieri e malati, erano rimasti nell'ospedale ebraico in città, sotto il diretto controllo tedesco (M Koljanin, op. cit, p. 58).]. Durante i primi cinque mesi il numero di internati variò costantemente a causa dell'elevato tasso di mortalità, dell'arrivo di numerose traduzioni e del rilascio graduale, tra il febbraio e il marzo 1942, dei rom. Il 22 gennaio si registrarono 5.200 internati, il 31 gennaio 6.500, l'11 febbraio 6.000, il 26 febbraio 5.780, il 15 marzo 5.150; in seguito il numero scese rapidamente [N.d.A. L. Ivanovic, op. cit., p. 309.].
Oltre alla popolazione ebraica belgradese, nel gennaio del 1942 furono trasferiti a Sajmište anche gli uomini di Topovske šupe, ammassati nel padiglione 5 [N.d.A. M. Koljanin, op. cit., p. 57.]. In febbraio furono internate le donne e i bambini sopravvissuti a Šabac e Kragujevac, in marzo gli ebrei di Niš e quelli che si erano rifugiati a Kosovska Mitrovica e Priština, consegnati ai tedeschi dalle forze italiane che controllavano quelle zone. Altri furono deportati dopo il maggio del 1942 dall'Albania, dalla Bosnia e dalle zone italiane del litorale croato (Spalato) e in seguito trasferiti a Bergen Belsen o ad Auschwitz [N.d.A. J. Romano, op. cit., p. 83.].
Per quanto riguarda la composizione degli internati è più difficile avere de dati certi, tuttavia sappiamo che il 6 febbraio erano presenti 5.654 internati, di cui 76 neonati, 1.136 bambini sotto i sedici anni, e 4.442 ragazzi. Dieci giorni più tardi si registrarono 5.503 internati (332 maschi, 3.933 donne e 1.238 bambini) [N.d.A. M. Koljanin, op. cit., p. 62.].
Appena varcate le soglie del campo, le donne compresero che le condizioni di vita a Sajmište sarebbero state terribili. Le finestre facevano entrare la Košava, il gelido vento che soffia su Belgrado; attraverso il tetto filtravano pioggia e neve che si raccoglievano in grandi pozzanghere sul pavimento; la poca paglia sui tavolacci si riempì presto di cimici, la luce era accesa tutta la notte e le quattro stufe non erano in grado di riscaldare locali tanto vasti [N.d.A. Ivi, pp. 77 - 79; J. Romano, op. cit, p. 80.].
Quando siamo arrivati nel campo era pronto solo il padiglione numero 3 […] i vetri delle finestre erano rotti e tutto l'edificio era segnato dai bombardamenti, c'erano crepe sui muri, il tetto era rovinato ed entravano pioggia e neve. Sul pavimento di cemento si formavano grandi pozzanghere che con il freddo si ghiacciavano.
[...] i letti erano terribilmente sovraccarichi, ognuno di noi aveva mezzo metro di larghezza per dormire […] l'umidità che rimaneva sui muri […] si trasformava in ghiaccio e muri stessi sembravano fatti di ghiaccio. Il vento e la neve entravano attraverso i muri danneggiati nel padiglione [N.d.A. Državna Komisija za Utvrdivanje Zlocina Okupatora i Njihovih Pomagaca (Commisione di Stato per l'accertamento dei crimini degli occupatori e dei loro collaboratori), Zlocini fašistickih okupatora i njihovih pomagaca protiv Jevreja u Jugoslaviji (I crimini degli occupatori fascisti e dei loro collaboratori), Beograd 1952, p. 25, citato in L. Ivanovic, op. cit., p. 305.].
Scriveva la giovane Hilda Dajc il 9 dicembre 1941:
Mia cara Mirjana,
Ti scrivo dall'idillio di questa stalla stesa sulla paglia mentre sulla mia testa, al posto del cielo stellato, si trova la costruzione di legno del tetto del padiglione n. 3. Nella mia galleria (la terza nella villa numero 2) che si compone di una fila di tavole, e sulla quale noi cento abbiamo ognuno 80 cm. di larghezza di spazio vitale e che reputo un labirinto, più precisamente un formicaio di poveracci, le tragedie sono innumerevoli [N.d.A. La lettera è conservata presso l'Historijski Arhiv Grada Beograda e presso l'Jevrejiski Istorijiski Muzej, k 24-2-1/2, br. 1877; per la traduzione integrale si veda: M. Pisarri (a cura di), Lettere dal campo di Sajmište II, in questo numero della rivista.].
E due giorni più tardi:
Qui la situazione è così, non so come descriverla, in una parola, una grande stalla per 5.000 e più persone, senza una parete, senza pannelli divisori, tutti nello stesso locale [...] Puoi immaginare che chiasso possono fare oltre 5.000 persone, chiuse in un'unica stanza, di giorno non si sentono le proprie parole, di notte c'è un'orchestra gratuita (ovvero non proprio gratuita perché ti costa il sonno) l'orchestra dei bambini che piangono, che russano, tossiscono, e altri restanti rumori [N.d.A. Per la traduzione integrale della lettera si veda: B. Bianchi (a cura di), Lettere dal campo di Sajmište, dicembre 1941-febbraio 1942, in DEP, 2, 2005; la lettera è conservata presso l'Jevrejiski Istorijiski Muzej (JIM). k 24-2 br. 537/2.
La lettera, pubblicata in traduzione italiana nel secondo numero di questa rivista, è conservata presso l'Historijski Arhiv Grada Beograda e presso l'Jevrejiski Istorijiski Muzej, k 24-2-1/2, br. 1877. M. Pisarri (a cura di), Lettere dal campo di Sajmište II, in questo numero della rivista.].
I padiglioni erano illuminati tutta la notte; ogni mattina la sveglia era alle 5, seguita subito dall'appello all'esterno; alle sei veniva distribuita la colazione, composta da tè senza zucchero o surrogato di caffé, a pranzo e a cena veniva distribuita una zuppa di cavoli, fagioli o patate senza grasso e senza sale; la razione di pane di mais giornaliera era di 120 grammi. I trenta litri destinati quotidianamente ai bambini non potevano bastare a tenerli in vita [N.d.A. M. Koljanin, op. cit., p. 81, p. 88 e p. 90; J. Romano, op. cit., p. 82.].
Ora qui ci sono 2000 donne e bambini, circa 100 neonati per i quali non si può nemmeno scaldare il latte perchè non c'è riscaldamento, e considerando l'altezza del padiglione e la forza della Košava puoi immaginare il livello di calore [N.d.A. Lettera di Hilda Dajc 12 dicembre 1941. per il testo completo della lettera si veda: M. Pisarri (a cura di), Lettere dal campo di Sajmište II, cit.].
Le condizioni igieniche erano drammatiche poiché la possibilità di lavarsi dipendeva da due rubinetti e da dieci docce [N.d.A. M. Koljanin, op. cit., p. 83.]. Presto iniziarono a diffondersi i contagi e le malattie provocate dal freddo e dalla fame; comparvero la dissenteria, il tifo enterico e petecchiale [N.d.A. Ivi, p. 83; J. Romano, op. cit., p. 82.].
I rifornimenti alimentari erano talmente scarsi da provocare in qualche caso richieste di sollecito da parte delle stesse autorità del campo [N.d.A. Nonostante il campo fosse in territorio croato, il rifornimento alimentare era affidato al Comune di Belgrado, dunque allo stato collaborazionista serbo. Il cibo arrivò già pronto nelle prime tre settimane poiché la cucina non era ancora stata attivata, poi secondo determinate quantità stabilite dai Tedeschi: solo il pane cominciò ad essere trasportato già il 10 dicembre. Oltre ad essere una quantità minima, spesso il cibo tardava ad arrivare o addirittura era già guasto (M. Koljanin, op. cit., pp. 91 - 92).], ma il cibo mancava anche in città; gran parte della produzione agricola infatti veniva regolarmente requisita e inviata in Germania, tanto che già dall'estate del 1941 si era dovuto procedere al razionamento [N.d.A. K. Browning Ivi p. 93, 411.]. Dal 10 al 16 gennaio 1942, ad esempio, vennero sottratti ai rifornimenti ben 7.625 kg di cavoli, 252 kg di carne, 657 kg di farina, 736 kg di grasso, 567 kg di cipolle, 110 kg di peperoni e 1.065 kg di sale [N.d.A. L. Ivanovic, op. cit, p. 306.].
Non può stupire quindi l'elevatissimo tasso di mortalità nei mesi eccezionalmente freddi dell'inverno 1941-1942. Quotidianamente le deportate erano costrette ad ammucchiare i cadaveri nel padiglione turco e a trasportarli sull'altra sponda della Sava che quell'inverno ghiacciò [N.d.A. Ivi, p. 97. I corpi venivano consegnati alle autorità cittadine che poi provvedevano alla sepoltura nel cimitero ebraico della città.].
Qualche giorno fa abbiamo sistemato alcuni cadaveri nel padiglione turco, tutti sul davanti; erano 27. Nulla ora mi fa ribrezzo, neppure il mio sporco lavoro. Si potrebbe fare qualsiasi cosa se si sapesse quello che non si può venire a sapere, ovvero quando si aprirà la porta della clemenza [N.d.A. Lettera di Hilda Dajc, 7 febbraio 1942; per la traduzione integrale si veda: B. Bianchi (a cura di), Lettere dal campo di Sajmište, cit. La lettera è conservata in JIM, k 24-2-1/3-1, br. 2229.].
Ad eccezione di poche decine di donne rilasciate, in gran parte nelle prime settimane grazie ad amicizie o a riscatti, pochissime uscirono vive dal campo [N.d.A. M. Koljanin, op. cit., p. 128.]. Per ricostruire le condizioni di vita, le sofferenze, gli stati d'animo delle deportate restano le lettere che alcune di loro riuscirono a far pervenire ai loro cari e che ora sono conservate presso il Museo ebraico belgradese.
Biglietti e lettere venivano scritte di nascosto e poi affidate ad alcune persone che, avendo accesso al campo, potevano fungere da corrieri. Si trattava in primo luogo di medici e dentisti dell'ospedale ebraico che periodicamente si recavano a Sajmište. Uno di essi, come si evince dalla lettera di Magda Kadelburg, era un certo Aušpic.
Cara Borica! Ho ricevuto il Suo biglietto. Grazie di essere così dolce. Se ha ancora bisogno di denaro (Sonja) lo chieda ad Aušpic, io poi glielo restituirò qui. Se arriva una lettera dai prigionieri, scriva Lei la risposta, come siamo d'accordo, e la lettera che hanno scritto, la spedisca qui. Non ho ancora ricevuto la lettera di Lacika. Scriva a lui e a Minja che stiamo bene. Non deve venire qui. In nessun caso. Bacio Sonja e le voglio molto bene. Butti nel fuoco tutti i biglietti che riceve da me. Grazie di tutto. Se Sonja riceve i miei saponi per favore ne mandi un paio a noi e lo stesso ai prigionieri. La bacio e Le voglio tanto bene,
Sua Magda [N.d.A. Lettera di Magda Kadelburg, non datata (inverno 1941-1942), JIM (Jevrejiski Istorijiski Muzej), k 24-3-3/1, br. 2668.].
Prima di Aušpic, che probabilmente era un dentista [N.d.A. M. Koljanin, op. cit., p. 80.], sappiamo che a portare le lettere fuori e dentro il campo era il corriere dell'ospedale ebraico, un certo Heslajn, finchè, scoperto, non venne fucilato all'interno del campo. Le internate inoltre riuscirono ad accordarsi con l'autista del camion che puliva l'impianto fognario, un certo Pera, e con i lavoratori esterni. Scoperto, rivelò sotto tortura i nomi delle donne che gli avevano consegnato le lettere. Anch'esse furono fucilate [N.d.A. Testimonianza di Blagoje Kuburovic, cit. in M. Koljanin, op. cit., p. 81.]. La stessa sorte toccò ad altre otto donne tra il gennaio 1942 e il sei nel marzo dello stesso anno.
Oltre alle lettere, per un certo periodo le deportate riuscirono a far entrare nel campo anche del cibo. Ne è una conferma la lettera di Rene Conforti:
Mio carissimo Amico,
Ieri ho ricevuto il suo pacchetto del quale vi ringrazio tanto. In futuro vi prego di non mandarmi niente tramite il figlio di Gevir perchè mi ha preso 50 dinari e ha portato un pezzo molto piccolo di carne che mi ha dato, ma io ho visto che ne aveva mangiato un po'. Se riesce tramite qualche persona onesta bene altrimenti la prego non spedisca più niente. Sto attenta e La ringrazio. Le voglio tanto bene e La stimo molto, la Sua amica
Rene
se spedisce qualcosa lo faccia solo tramite l'Ospedale Ebraico [N.d.A. Lettera di Rene Altarac Conforti, non datata (inverno 1941-1942), JIM (Jevrejiski Istorijiski Muzej), k 24-3-3/1, br. 2668.].
Le lettere delle deportate ci rivelano le strategie di sopravvivenza, le sofferenze quotidiane, la fame, il freddo, l'angoscia per il futuro, per il destino dei famigliari, la disperazione, la volontà di mantenere un giudizio lucido e distaccato su quanto accadeva dentro e fuori di sé. Scrive Hilda Dajc nella sua ultima lettera spedita dal campo:
È la fine del filosofare davanti al filo spinato, è la realtà in tutta la sua interezza, che voi fuori non potete nemmeno lontanamente immaginare, perché urlereste dal dolore. Questa realtà è insuperabile, la nostra è una miseria immensa; tutte le frasi sulla forza dello spirito cadono davanti alle lacrime per la fame e il freddo, tutte le speranze in una prossima uscita si perdono davanti alla prospettiva ripetitiva di un sopravvivere passivo che non assomiglia in nessun modo alla vita. Non è ironia della vita, è la sua tragedia più profonda.
Possiamo resistere non perché siamo forti, ma unicamente perché non siamo consapevoli in ogni momento della nostra immensa miseria in tutti gli aspetti della nostra vita [N.d.A. Lettera di Hilda Dajc, 7 febbraio 1942, cit.].
Dopo nove settimane di internamento, la giovane studentessa che era entrata nel campo volontariamente per essere d'aiuto alle deportate, esprime la disperata volontà di resistere, di ribellarsi a "un sopravvivere passivo", anche attraverso il disprezzo per tutte le manifestazioni di cedimento, per chi non aveva "la forza di interrompere la vita".
Le persone mi urtano i nervi. Neppure la fame che ti fa piangere, neppure il freddo che ti ghiaccia l'acqua nel bicchiere e il sangue nelle vene, neppure la puzza delle latrine, neppure il vento gelido di levante, nulla è altrettanto ripugnante del groviglio umano che merita la tua compassione e che non puoi aiutare, ma solo metterti al di sopra di esso e disprezzare [N.d.A. Ibidem.].
Le brevi lettere, le poche frasi scritte di nascosto su piccolisssimi pezzi di carta, confermano l'importanza della solidarietà, dell'amicizia, dell'aiuto reciproco che le donne seppero offrirsi anche nei momenti più drammatici. Cika Alkalaj in una lettera al marito David, l' 8 Dicembre 1941, volle rassicurarlo con queste parole: "Staremo tutti insieme. Ci prenderemo cura l'uno dell'altro e condivideremo la stessa sorte". Godel Berte, una donna anziana, così ricorda l'aiuto di Ruža (forse la nipote), senza il cui sostegno non avrebbe potuto resistere:
Vedessi come la tua Ruža ha resistito fedelmente e coraggiosamente a fianco a me fino all'ultima ora! [...]. Ho resistito in questi duri giorni grazie a lei. Se avesse potuto sarebbe restata ancora al mio fianco ma mi hanno diviso da lei [N.d.A. Lettera non datata; per la traduzione integrale rimando a M. Pisarri (a cura di), Lettere dal campo di Sajmište II, cit.].
Che cosa hanno intenzione di fare di noi? Siamo sempre in stato di tensione. Ci fucileranno? Ci faranno saltare in aria? Ci porteranno in Polonia? [N.d.A. Lettera di Hilda Dajc, 7 febbraio 1942, cit.]
Così scriveva Hilda Dajc il 7 febbraio 1942, quando ancora sperava che si potessero aprire "le porte della clemenza". Dopo poche settimane aveva inizio lo sterminio sistematico.
I comandi nazisti decisero di mettere in atto il loro progetto con estrema rapidità: mentre gli ebrei non rappresentavano che un inutile fardello, urgevano luoghi in cui rinchiudere gli appartenenti alle forze partigiane che stavano dimostrando tutta la loro forza organizzativa e capacità di resistenza. Già nel marzo del 1942 Kunze, il comandante delle forze armate tedesche dell'Europa Sud-Orientale, emise un ordine di arresto di tutti i "rivoltosi" e i sospetti, in seguito inviati in Germania e costretti al lavoro forzato [N.d.A. V. Glišic, op. cit, p. 97.]. Stessa sorte sarebbe toccata ai partigiani catturati, utilizzati anch'essi come forza lavoro e deportati a Šabac, Banjica, Niš e a Sajmište [N.d.A. Ivi p. 122.].
Sui motivi che spinsero ad eliminare tanto rapidamente la popolazione ebraica non c'è accordo tra gli studiosi: Koljanin ritiene che tale decisione sia stata presa su pressione del generale Bader, capo delle forze armate tedesche in Serbia; essa sarebbe stata dettata dalla necessità di liberare i campi per far posto ai partigiani. Browning, al contrario, sostiene che la decisione di sbarazzarsi degli ebrei venne direttamente da Berlino, in particolare da Rademacher, il quale rifiutò la proposta del generale Bencler di deportare gli ebrei in altri campi dell'Europa Orientale. Egli rimase fermo nel suo proposito di procedere all'eliminazione degli ebrei in Serbia [N.d.A. M. Koljanin, op. cit., p. 113.]. Comunque sia, verso la metà di marzo, in coincidenza con l'inizio della "soluzione finale" nel resto d'Europa, la decisione era stata presa.
In quei giorni giunse a Belgrado un camion attrezzato per la gassazione che era già stato utilizzato nel 1939 per eliminare i malati di mente in Germania e in Polonia [N.d.A. K. Browning, op. cit., p. 416.]; in seguito venne sperimentato un modello più perfezionato sui prigionieri sovietici del campo di Zaksenhausen. Se i primi sei camion potevano contenere cinquanta persone, nel gennaio del 1942 i nuovi modelli potevano contenerne duecento. Si calcola che in questi camion, utilizzati soprattutto in Unione Sovietica, in Polonia e in Jugoslavia, tra la fine del 1941 e quella del 1942, abbiano perso la vita circa 100.000 ebrei [N.d.A. Ivi p. 119. ].
Il camion inviato a Sajmište era guidato da due sottoufficiali delle SS: Götz e Meyer, i quali rispondevano agli ordini del maggiore delle SS Pradel e del tenente colonnello Rauff, di stanza a Berlino. Essi iniziarono il loro lavoro di annientamento dall'ospedale ebraico. Qui, tra il 19 e il 22 marzo, si recò più volte al giorno per caricare gruppi di 80-85 malati. L'ultimo giorno venne liquidato anche tutto il personale medico ed infermieristico [N.d.A. M. Koljanin, op. cit., p. 120.]. Circa quindici giorni dopo venne il turno di Sajmište. Qui il 31 marzo si trovavano 5.293 persone; ad esse il comandante del campo Andorfer annunciò che sarebbero state trasferite in Polonia o in Romania e parlò loro delle regole che avrebbero dovuto rispettare nei nuovi campi, fece migliorare l'alimentazione e distribuì perfino sigarette e occhiali. All'arrivo del camion nessuno sospettava la propria sorte [N.d.A. L. Ivanovic, op. cit., p p. 122.]. I due sottoufficiali che guidavano il camion, ogni volta che entravano nel campo distribuivano caramelle ai bambini [N.d.A. Ivi p. 123.]. Così David Albahari in una trasposizione letteraria descrive il momento in cui, giorno dopo giorno, le deportate con i loro bambini salivano sul camion:
E così, un giorno dopo l'altro, [Goetz e Meyer] ripetono la loro solita trafila. Prima Goetz, oppure Meyer, guida il camion fino all'ingresso del campo, poi Meyer, oppure Goetz, apre il grande portellone posteriore. Ordinati e silenziosi gli internati salgono sul camion, donne, bambini, qualche vecchio. In precedenza hanno lasciato le loro cose in un altro camion, parcheggiato all'interno del campo. Sono convinti che sia finalmente giunto il momento del trasferimento in Romania, benché si parli anche della Polonia, ma questo non importa, l'importante è che se ne stanno andando da questo posto spaventoso, in qualunque luogo andranno non potrà essere peggio di questo, e sui loro volti aleggia un'espressione di sollievo [N.d.A. Si vedano nella sezione Documenti, in questo numero della rivista, alcune pagine del romanzo di David Albahari, Goetz e Meyer.].
I due ufficiali mettervano in moto, e mentre il camion si dirigeva a Jajinci, un paese a dieci chilometri da Belgrado, il gas veniva rilasciato nel cassone. Sul luogo di destinazione erano già state scavate le fosse comuni. Goetz e Meyer aprivano il pesante portellone, il cassone s'inclinava leggermente e i corpi esanimi scivolavano direttamente nella fossa. Secondo alcune testimonianze furono scavate nel complesso 81-82 fosse [N.d.A. L. Ivanovic, op. cit., p. 309.]. Il compito di scavare e ricoprire le fosse spettava ai prigionieri serbi, sotto la sorveglianza dei membri del 64° battaglione, lo stesso che aveva il controllo del campo [N.d.A. Ivi p. 121.].
Si tratta di un gruppo di sette prigionieri, scelti appositamente per quel lavoro. Si dice che fossero in cinque, ma data la gravosità del compito - occorre portar fuori i cadaveri e riempire le fosse nel più breve tempo possibile - sette sembra un numero più probabile. All'inizio stavano attenti a come prendevano i cadaveri, si trattava pur sempre di un uomo morto, una donna soffocata, un bambino calpestato, ma poi li afferravano come potevano, non c'era tempo per esprimere rispetto, non quando ce ne sono tanti e quando ognuno è più pesante di un qualsiasi essere vivente. La morte è pesante. La morte è un peso [N.d.A. D. Albahari, Goetz e Meyer, cit.].
Secondo i dati riportati nelle relazioni dell'amministrazione il 20 aprile nel campo c'erano 4.005 internati; dal primo aprile quindi erano stati uccise circa 1.200 persone, circa settanta al giorno; il 27 aprile però nel campo erano rimaste solo 1.884 persone, ovvero nel giro di una settimana ne erano state eliminate 2.121, circa 303 al giorno [N.d.A. L. Ivanovic, op. cit., p. 124.]. L'ultimo viaggio del camion, quello in cui vennero eliminate l'amministrazione e la Presidenza, fu effettuato il 10 maggio. Portato a termine il loro compito, Goetz e Meyer fecero ritorno a Berlino.
Le donne e i bambini ebrei furono sostituiti nel campo dai partigiani. Secondo quanto è scritto sulla lapide che oggi sorge dove un tempo sorgeva il campo, a Sajmište persero la vita 40.000 persone.
Le ricerche condotte sulla base delle relazioni del comando dall'amministrazione del campo non sono concordi sul numero complessivo di vittime: 10.000 secondo Ivanovic [N.d.A. Ivi, p. 309.], 11.000 secondo Romano [N.d.A. J. Romano, op. cit., p. 84. L'autore parla genericamente di 11.000 internati "passati attraverso Sajmište".], 14.000 secondo Kerso [N.d.A. M. Kreso, op. cit., L'autore considera anche i rom], 7.000 secondo Glišic [N.d.A. V. Glišic, op. cit., p. 92.], 6.300 - 6.340 secondo Koljanin [N.d.A. M. Koljanin, op. cit., p. 128.].
Il campo di Sajmište, così come l'annientamento degli Ebrei nella Serbia occupata, non hanno ancora trovato il giusto spazio nella storiografia italiana, eppure ciò che avvenne nel cuore dei Balcani è di grande rilevanza, soprattutto per la rapidità della soluzione finale.
In un arco di tempo relativamente breve, dall'aprile 1941 al maggio 1942, la Serbia era diventata Judenfrei. Quando nei campi polacchi si diede avvio alla soluzione finale, in Serbia essa era già compiuta. Quando gli ebrei cominciarono ad essere eliminati ad Auschwitz-Birkenau, in Serbia erano già stati eliminati.
A quanti fosse nota l'esistenza del campo è difficile dire. Sappiamo con certezza che alla fine del dicembre 1941 le autorità del governo in esilio sapevano di Sajmište e nel gennaio del 1942 la voce era giunta a Zagabria [N.d.A. Ivi pp. 134 - 135.], la capitale dello Stato indipendente di Croazia. Certamente non solo i nazisti fecero di tutto per tenere segreto lo sterminio e le sue modalità, ma anche le autorità del governo di Nedic [N.d.A. Ivi, p. 116.]. In ricordo delle vittime resta oggi solo una placca commemorativa.
a) Sui crimini commessi contro gli ebrei jugoslavi
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