il manifesto del 23 Marzo 2008 di Marco Clementi
In Italia la storia della resistenza è stata oggetto di una serie di revisioni da parte di storici e saggisti, che hanno cercato di rileggere aspetti del fenomeno alla luce dei mutamenti politici europei degli ultimi decenni. I risultati non sempre sono stati all'altezza delle attese, ma in alcuni casi hanno avuto il merito di sollevare importanti quesiti, sui quali è bene confrontarsi anche a distanza di molto tempo, riguardanti per esempio il numero e il ruolo dei partigiani prima e dopo la liberazione del paese, le differenze tra le diverse anime della resistenza, la composizione sociale delle brigate partigiane, la corrispondenza al vero di vari «miti», da quello della resistenza tradita alla mancata epurazione nelle zone liberate. Libri che hanno avuto una larga diffusione, come quelli di Giampaolo Pansa dedicati al «sangue dei vinti» hanno suscitato polemiche, spesso accompagnate dal tentativo più generale di screditare in parte, o interamente, il movimento resistenziale italiano, che fu uno dei più importanti in Europa.
Il tema legato alla resistenza, del resto, divenne un oggetto di divisione e revisione già pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Se in un primo tempo, per esempio, i sovietici erano stati propensi a valutare l'esperienza partigiana italiana nel suo complesso e in modo equilibrato, distinguendone le varie anime e tendenze, già nel 1948 la lettura di quegli anni si era ideologizzata e un libro come La storia della resistenza di Luigi Longo poté essere pubblicato a Mosca solo dopo un'attenta revisione finalizzata a esaltare la guerra di popolo guidata dai comunisti e porre in
ombra l'apporto delle forze politiche di diverso orientamento, che dovevano passare per elementi guidati dagli alleati al fine di boicottare l'incidenza di quello che fu chiamato già nel 1945 il vento del Nord. In tale prospettiva, fatti come il proclama Alexander del novembre 1944, sul quale si tornerà tra breve, sono stati giudicati alla stregua di un tradimento e come la prova della malafede alleata.
La storiografia più recente ha registrato anche una tendenza opposta. Importanti studi, come quello di Franco Giustolisi dal titolo L'armadio della vergogna, riguardante gli incartamenti sulle stragi tedesche in Italia dimenticati in luoghi reconditi delle procure, non solo hanno fatto nuova luce sulle repressioni, ma hanno cercato di ricollocare nel loro contesto storico le azioni dei partigiani e dei Gruppi di azione (Gap) che agivano nelle città occupate. Tra gli atti di guerra che allora vennero condotti contro l'esercito tedesco, il più conosciuto e che ha catalizzato le maggiori polemiche è stata l'azione di via Rasella, un attacco portato dai Gap all'esercito occupante che il 23 marzo del 1944 provocò la morte di 33 uomini della undicesima compagnia del reggimento Bozen, comandato dal maggiore Helmut Dobbrick, e di sei italiani, tra cui un bambino.
Il giorno dopo, il 24 marzo, 335 italiani, tra cui 154 persone a disposizione
dell'Aussenkommando, sotto inchiesta di polizia, 23 in attesa di giudizio del
Tribunale militare tedesco, 16 persone già condannate dallo stesso tribunale a pene varianti da 1 a 15 anni, 75 appartenenti alla comunità ebraica romana, 40 persone a disposizione della Questura romana fermate per motivi politici, 10 fermate per motivi di pubblica sicurezza, 10 italiani arrestati il 23 nei pressi di via Rasella, una persona già assolta dal Tribunale militare tedesco e, infine, tre non identificate, furono condotti nelle cave di pozzolana lungo la via Ardeatina. Qui furono massacrati dai tedeschi comandati da Herbert Kappler. Per questo crimine, lo stesso Kappler e altri ufficiali tedeschi, tra cui Erich Priebke, sono stati processati poi e condannati dalla giustizia italiana.
Nel corso dei decenni seguiti alla fine della guerra le polemiche su via Rasella non si sono spente. Da un lato, dopo la riabilitazione «dei ragazzi di Salò», operata in Italia a molti livelli istituzionali, si è cercato di dare una nuova dignità a chi aveva aderito alla Repubblica mussoliniana.
Dall'altro, dopo l'11 settembre 2001 e l'inizio della cosiddetta «guerra al terrorismo», alcuni eventi sono stati riletti sotto una luce nuova e atti di guerra come quelli di via Rasella sono stati interpretato come atti di
terrorismo. Infine, qualcuno ha anche ipotizzato che via Rasella, in realtà, fu organizzata per provocare la reazione tedesca e condurre alla liquidazione del gruppo «Bandiera Rossa», scomodo per il Pci e in parte arrestato dai tedeschi.
Riportare in questo giorno di ricordo le cose nella loro proporzione storica non è un'impresa che può avvenire con un breve saggio. Né, del resto, è facile ricomporre quella che da molti è stata chiamata «la memoria divisa», che nel nostro paese sembra volersi non ricomporre mai o, nel caso, secondo una del tutto arbitraria par condicio, che in storia, invece, non dovrebbe avere quartiere. Prima della caduta del muro di Berlino i danni anche di una certa storiografia sono stati elevati e ci vorranno decenni per porre riparo a tutto ciò che una presunta lettura marxista - ma più semplicemente ideologica - ha provocato.
Due documenti molto chiari su ciò che allora era l'attitudine alleata nei confronti dei partigiani italiani, possono comunque aiutarci nel tentativo. Sono entrambi firmati dal comandante in capo delle forze alleate in Italia, il generale Alexander; uno è molto noto, il suo già citato proclama, l'altro un po' meno, ed è un Warnings, un avvertimento. Nel novembre del 1944 Alexander chiese ai partigiani di tenere le posizioni invernali per poi riprendere la parte finale della lotta in primavera. Il proclama diceva questo:
«Patrioti! La campagna estiva, iniziata l'11 maggio e condotta senza interruzione fin dopo lo sfondamento della linea Gotica, è finita: inizia ora la campagna invernale. In relazione all'avanzata alleata, nel periodo trascorso, era richiesta una concomitante azione dei patrioti: ora le piogge e il fango non possono non rallentare l'avanzata alleata, e i patrioti devono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l'inverno. Questo sarà molto duro per i patrioti, a causa della difficoltà di rifornimenti di viveri e di indumenti: le notti in cui si potrà volare saranno poche nel prossimo periodo, e ciò limiterà pure la possibilità di lanci; gli alleati però faranno il possibile per effettuare i rifornimenti».
Si aggiungeva che si dovevano conservare le munizioni, attendere nuove istruzioni, «approfittare però ugualmente delle occasioni favorevoli per attaccare i tedeschi e i fascisti», continuare «nella raccolta delle notizie di carattere militare concernenti il nemico; studiarne le intenzioni, gli spostamenti, e comunicare tutto a chi di dovere».
Inoltre, «le predette disposizioni possono venire annullate da ordini di azioni particolari», mentre «nuovi fattori potrebbero intervenire a mutare il corso della campagna invernale (spontanea ritirata tedesca per influenza di altri fronti)». Dunque «i patrioti siano preparati e pronti per la prossima avanzata». Infine, Alexander pregava «i capi delle formazioni di portare ai propri uomini le sue congratulazioni e l'espressione della sua profonda stima per la collaborazione offerta alle truppe da lui comandate durante la scorsa campagna estiva».
Tutto ciò, in quelle condizioni, era non solo ineccepibile, ma un riconoscimento di alta considerazione per il lavoro che stavano compiendo gli italiani oltre le linee dell'occupante. Avrebbe forse Alexander dovuto chiedere ai partigiani di organizzare la sollevazione generale, che in quel momento sarebbe sicuramente stata repressa dai tedeschi? Alexander, in realtà, stimava fortemente i partigiani italiani e fu leale nei loro confronti. Un mese prima del proclama egli aveva diffuso con tutti i mezzi a disposizione (etere, manifestini) il Warning, l'avvertimento rivolto agli ufficiali e agli
uomini tedeschi affinché non usassero il pretesto delle azioni dei patrioti per commettere crimini contro la popolazione civile.
Nel Warning si constatava che i massacri di civili italiani stavano diventando ogni giorno più frequenti; il fatto, però, che in un certo luogo dei patrioti italiani avessero portato a termine un'azione militare contro gli occupanti, non giustificava da parte di questi ultimi alcuna azione di rappresaglia contro la popolazione o persone in attesa di processo, che doveva essere considerata un crimine di guerra. Gli ufficiali e gli uomini tedeschi che si erano o si sarebbero macchiati di tali azioni, sarebbero stati considerati dei criminali e processati nei paesi in cui tali crimini erano stati perpetrati.
Si chiedeva alla popolazione italiana e ai partigiani di prendere nota dei nomi dei reparti tedeschi responsabili, dei luoghi e delle modalità con cui le rappresaglie erano condotte, e si elencavano alcuni degli eccidi di cui al momento si era a conoscenza.
Tra questi, al primo posto Alexander citava proprio quello delle Fosse Ardeatine, seguito da quello di Stia, di Civitella Val di Chiana e Roncastaldo.
La posizione del generale inglese è molto importante per comprendere l'attitudine degli alleati nei riguardi dei nostri partigiani. Essi erano i patrioti che al di là delle linee svolgevano un'importante azione finalizzata alla cacciata degli occupanti.
Nessuna azione poteva giustificare una reazione tedesca contro la popolazione. Al contrario, gli atti dei partigiani, compresa via Rasella, furono sempre considerati come legittimi atti di guerra contro l'occupante, appoggiati dagli alleati con ogni mezzo propagandistico a disposizione. Contrariamente a quanto si può supporre, in alcuni casi non c'è bisogno di andare a cercare molto lontano una legittimità che, in quegli anni, era cosa non solo scontata, ma assolutamente condivisa da tutto il fronte antifascista.