Per capire la tragedia delle foibe istriane, senza affatto giustificare o rimuovere nessuno di quei crimini, è assolutamente necessario inquadrare bene il periodo in cui si sono svolti i fatti : tra la fine della prima guerra mondiale e lo svolgimento della seconda, nel contesto storico della guerra fascista e nazista alle popolazioni jugoslave.
Un periodo tragico per la popolazione Istriana, inserita nel territorio di frontiera di un'Italia asservita al regime fascista, che non poteva né voleva governare con giustizia quei territori plurietnici e anzi voleva realizzare un preciso programma di oppressione e annessione.
Ancor prima della firma del Trattato di Rapallo del 1920, che assegnò definitivamente l'Istria all' Italia, quando la regione era soggetta al regime di occupazione militare, la popolazione dell'Istria si trovò di fronte allo squadrismo fascista importato da Trieste, particolarmente aggressivo e feroce.
Gli stessi storici fascisti, tra i quali l'istriano G.A. Chiurco, vantando le gesta degli squadristi e glorificando le loro opere, ne hanno abbondantemente documentato i misfatti compiuti : dagli assassinii di antifascisti italiani quali Pietro Benussi a Dignano, Antonio Ive a Rovigno, Francesco Papo a Buie, Luigi Scalier a Pola e tanti altri, alla distruzione delle Camere del lavoro, all'incendio delle Case del popolo, alle sanguinose spedizioni nei villaggi croati e sloveni della penisola.
Questi misfatti aumentarono dopo la creazione del regime fascista.
Furono abolite (e distrutte) tutte le società culturali, sociali e sportivi delle popolazioni Slovena e Croata, vennero abolite le loro scuole di ogni grado, cessarono di uscire i loro giornali, i libri scritti nelle loro lingue furono considerati materiale sovversivo: doveva sparire ogni segno esteriore della loro presenza.
Con un decreto del 1927 furono forzosamente italianizzati i cognomi di famiglia, nelle chiese le messe poterono essere celebrate soltanto in italiano, le lingue croata e slovena dovettero sparire perfino dalle lapidi sepolcrali, cacciate dai tribunali e dagli uffici, bandite dalla vita quotidiana.
Migliaia di persone finirono al confino e alcune centinaia di democratici italiani, socialisti, comunisti, cattolici, che lottavano per la difesa dei più elementari diritti delle minoranze, subirono violenze, attentati, arresti, processi e lunghi anni di carcere inflitti dal Tribunale speciale fascista.
Un ministro dei Lavori Pubblici dell'era fascista Giuseppe Cobolli Gigli, figlio del maestro elementare sloveno Nikolaus Combol, classe 1863, italianizzò spontaneamente il cognome nel 1928, anche perchè sin dal 1919 si era dato uno pseudonimo patriottico, Giulio Italico. Divenuto poi un gerarca, prese un secondo cognome, Gigli, dandosi un tocco di nobiltà.
Fu autore di opuscoletti altamente razzisti, fra i quali “Il fascismo e gli allogeni” (da «Gerarchia», settembre 1927) in cui sosteneva la necessità della pulizia etnica, attraverso la sostituzione delle popolazioni «allogene» autoctone con coloni Italiani provenienti da altre provincie del Regno.
Tra altre nefandezze, il Combol-Cobolli scrisse “Il paese sorge sul bordo di una voragine che la musa istriana ha chiamato Foiba, degno posto di sepoltura per chi, nella provincia, minaccia con audaci pretese, le caratteristiche nazionali dell'Istria .”
Quindi chi, fra i Croati, aveva la pretesa, per esempio, di parlare nella lingua materna, correva il pericolo di trovar sepoltura nella suddetta foiba.
Il Cobolli Gigli, nell’occasione, volle anche tramandare ai posteri una canzoncina in voga fra gli squadristi fascisti di Pisino … la canzoncina di “Sua Eccellenza” (testo dialettale e traduzione italiana a fronte) diceva:
A Pola xe l'Arena / la Foiba xe a Pisin : / che i buta zo in quel fondo / chi ga certo morbin .
(A Pola c'è l'Arena, / a Pisino c'è la Foiba : / in quell'abisso vien gettato / chi ha certi pruriti).
E’ triste vedere che il brevetto degli “infoibamenti” spetta agli Italiani, ai fascisti in particolare e risale agli inizi degli anni Venti del XX secolo . E putroppo essi non rimasero allo stato di progetto e di canzoncine.
Riporto dal quotidiano triestino Il Piccolo del 5 novembre 2001, la testimonianza di Raffaello Camerini, ebreo, classe 1924 :
« Nel luglio del 1940, ottenuta la licenza scientifica, dopo neanche un mese, sono stato chiamato al lavoro "coatto", in quanto ebreo, e sono stato destinato alle cave di bauxite, la cui sede principale era a S. Domenica d'Albona .
Quello che ho veduto in quel periodo, sino al 1941 - poi sono stato trasferito a Verteneglio - ha dell'incredibile.
La crudeltà dei fascisti italiani contro chi parlava il croato, invece che l'italiano, o chi si opponeva a cambiare il proprio cognome croato o sloveno, con altro italiano, era tale che di notte prendevano di forza dalle loro abitazioni gli uomini, giovani e vecchi, e con sistemi incredibili li trascinavano sino a Vignes, Chersano e altre località limitrofe, ove c'erano delle foibe, e lì, dopo un colpo di pistola alla nuca, li gettavano nel baratro.
Quando queste cavità erano riempite, ho veduto diversi camion, di giorno e di sera, con del calcestruzzo prelevato da un deposito di materiali da costruzione sito alla base di Albona, che si dirigevano verso quei siti e dopo poco tempo ritornavano vuoti.
Allora, io abitavo in una casa sita nella piazza di Santa Domenica d'Albona, adiacente alla chiesa, e attraverso le tapparelle della finestra della stanza ho veduto più volte, di notte, quelle scene che non dimenticherò finchè vivrò (...). Mi chiedo sempre, pur dopo 60 anni, come un uomo può avere tanta crudeltà nel proprio animo.
Sono stati gli italiani, i fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari. Logicamente, i partigiani di Tito, successivamente, si sono vendicati usando lo stesso sistema. E che dire dei fascisti italiani che il 26 luglio 1943 hanno fatto dirottare la corriera di linea - che da Trieste era diretta a Pisino e Pola - in un burrone con tutto il carico di passeggeri, con esito letale per tutti. (. . .)
Ho lavorato fra Santa Domenica d'Albona, Cherso, Verteneglio sino all'agosto del `43 e mai ho veduto un litigio fra sloveni, croati e italiani (quelli non fascisti). L'accordo e l'amicizia era grande e l'aiuto, in quel difficile periodo, era reciproco. Un tanto per la verità, che io posso testimoniare».
Per gli slavi il risultato del ventennio fascista e del triennio bellico 1940-43 fu la fuga dall'Istria di circa 60.000 persone.
Purtroppo a rafforzare il nazionalismo anti-italiano fu ancora una volta il fascismo di Mussolini che nella seconda guerra mondiale portò l'Italia ad aggredire i popoli jugoslavi.
Quell'aggressione tra il 6 aprile 1941 e l'inizio di settembre 1943 fu caratterizzata dalle brutali annessioni di larghe fette di Croazia e Slovenia e da una lunga serie di crimini di guerra.
Per ordine dello stesso Mussolini e di alcuni generali, si giunse alle scelte più spietate dei comandi militari italiani : ne derivarono «rapine, uccisioni, ogni sorta di violenza perpetrata a danno delle popolazioni».
Nelle regioni della Croazia annesse all'Italia dopo il 6 aprile `41 si ripetè quanto avvenuto in Istria dopo la Grande Guerra: si ricorse ad ogni mezzo per la snazionalizzazione e l'assimilazione, provocando inevitabilmente l'ostilità e l’odio delle popolazioni.
Nella toponomastica, per cominciare da questo aspetto non cruento dell'occupazione, fu recitata una vera e propria tragicommedia, avendo come regista il Prefetto della Provincia del Carnaro e dei Territori Aggregati del Fiumano e della Kupa, Temistocle Testa : con suo decreto dell'8 settembre 1941 fu ordinato di «adottare senza indugio i nomi italiani di tutti quei luoghi (comuni, frazioni, località) che erano da secoli italiani e che la ventennale dominazione jugoslava ha trasformato in denominazioni straniere».
Così località del profondo territorio interno lungo il fiume Kupa e nel Gorski Kotar cambiarono : Belica divenne Riobianco, Bogovic divenne Bogovi.
Ma ben presto, dopo aver battezzato città, comuni, villaggi e frazioni, si passò a distruggere col fuoco quelli che non tolleravano l'italianizzazione né l'occupazione.
In data 30 maggio 1942 il Prefetto Testa, rese noto con pubblici manifesti di aver fatto eseguire l'internamento nei campi di concentramento in Italia di un numero indeterminato di famiglie di Jelenje dalle cui abitazioni si erano allontanati giovani maggiorenni senza informarne le autorità .
Ma non si limitò alle deportazioni : con un manifesto si rendeva noto: «Sono stase rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia».
Il 4 giugno gli uomini del II Battaglione Squadristi di Fiume incendiarono le case dei villaggi: Bittigne di Sotto (Spodnje Bitinje), Bittigne di Sopra (Gornje Bitnje), Rattecevo in Monte (Ratecevo). A Monte Chilovi (Kilovce), furono fucilate 24 persone.
Non c'è villaggio sul territorio di quelli che furono chiamati “Territori Aggregati e/o Annessi” a contatto con l'Istria e la regione del Quarnero, che non abbia avuto case bruciate o sia stato interamente raso al suolo, non una sola famiglia che non abbia avuto uno o più membri deportati o fucilati.
Ha scritto lo storiografo Carlo Spartaco Capogreco : «In Jugoslavia il soldato italiano, oltre che quello del combattente ha svolto anche il ruolo dell'aguzzino, non di rado facendo ricorso a metodi tipicamente nazisti quali l'incendio dei villaggi, le fucilazioni di ostaggi, le deportazioni in massa dei civili e il loro internamento nei campi di concentramento».
In particolare evidenzia che il numero dei condannati e confinati «slavi» della Venezia Giulia e dell'Istria fu particolarmente elevato : dal giugno 1940 al settembre 1943 la maggioranza degli «ospiti» dei campi di concentramento italiani era costituita da civili Sloveni e Croati.
Il numero totale dei civili internati dall'Italia fascista superò di diverse volte quello complessivamente raggiunto dai detenuti e confinati politici antifascisti in tutti i 17 anni durante i quali rimasero in vigore le «leggi eccezionali».
Più di 800 italiani, fra alti gerarchi civili e comandanti militari, furono denunciati per crimini di guerra commessi durante la seconda guerra mondiale alla War Crimes Commission dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.
I campi di concentramento nei quali furono rinchiusi più di centomila civili Croati, Sloveni, Montenegrini ed Erzegovesi erano disseminati dall'Albania all'Italia meridionale, centrale e settentrionale, dall'isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto.
Non si contano, poi, i campi «di transito e internamento» che funzionavano lungo tutta la costa Dalmata, sulle isole di Ugliano (Ugljan) e Melada (Molat) : quest’ultimo fu definito da monsignor Girolamo Mileta, vescovo di Sebenico, «un sepolcro di viventi».
In quei lager italiani morirono 11.606 Sloveni e Croati. Nel solo lager di Arbe ne morirono 2.600
circa, fra cui moltissimi vecchi e bambini per denutrizione, stenti, maltrattamenti e malattie.
Il 15 dicembre 1942 l'Alto Commissario per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell'XI Corpo d'Armata il rapporto di un medico in visita al campo di Arbe dove gli internati «presentavano nell'assoluta totalità i segni più gravi dell'inanizione da fame».
Sotto quel rapporto, il generale Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: «Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d'ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo».
Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale Ruggero inviò un fonogramma al Comando dell'XI Corpo in cui si parlava di «briganti comunisti passati per le armi» e «sospetti di favoreggiamento» arrestati. In una nota scritta a mano il generale Mario Robotti impose: «Chiarire bene il trattamento dei sospetti (. . .). Cosa dicono le norme 4c e quelle successive? Conclusione: si ammazza troppo poco!».
Il generale Mario Roatta, comandante della II Armata italiana in Slovenia e Croazia nel marzo del 1942 aveva diramato una Circolare 3C nella quale si legge: «Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da testa per dente».
Furono circa 200.000 i civili «ribelli» falciati dai plotoni di esecuzione italiani, dalla Slovenia alla «Provincia del Carnaro», dalla Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro e Montenegro senza aver subito alcun processo, ma in seguito a semplici ordini di generali dell'esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti.
Potremmo citare altri documenti, centinaia, che ci mostrano il volto feroce dell'Italia monarchica e fascista in Istria e nei territori jugoslavi annessi o occupati nella seconda guerra mondiale.
Gli stupri, i saccheggi e gli incendi di villaggi si ripetevano in ogni azione di rastrellamento.
Il 6 giugno 1942 furono deportate nei campi di internamento in Italia 34 famiglie per un totale di 131 persone di Castua, Marcegli, Rubessi, San Matteo e Spincici : i loro beni, compreso il bestiame, furono confiscati o abbandonati al saccheggio delle truppe, le loro case incendiate, dodici persone vennero fucilate.
Ancora più terribile fu la sorte toccata agli abitanti della zona di Grobnico, a nord di Fiume : per ordine del prefetto Temistocle Testa, reparti di camicie nere e di truppe regolari, irruppero nel villaggio di Podhum all'alba del 13 luglio.
L'intera popolazione fu condotta in una cava di pietra presso il campo di aviazione di Grobnico, mentre il villaggio veniva prima saccheggiato e poi incendiato. Più di cento maschi furono fucilati nella cava: il più anziano aveva 64 anni, il più giovane 13 anni appena. Finirono nei campi di internamento italiani donne e bambini di 185 famiglie.
Con un telegramma spedito a Roma il 13 luglio, Testa informò: «Ieri sera tutto l'abitato di Pothum nessuna casa esclusa est raso al suolo et conniventi et partecipi bande ribelli nel numero 108 sono stati passati per le armi et con cinismo si sono presentati davanti ai reparti militari dell'armata operanti nella zona, reparti che solo ultimi dieci giorni avevano avuto sedici soldati uccisi dai ribelli di Pothum stop Il resto della popolazione e le donne e bambini sono stati internati stop».
Nel solo Comune di Castua subirono spedizioni punitive diciassette villaggi: furono passate per le armi 59 persone, altre 2311 furono deportate ( 842 uomini, 904 donne e 565 bambini), furono incendiate 503 case e 237 stalle.
Sempre nella zona di Fiume, il 3 maggio 1943, reparti di fascisti e di fanteria rastrellarono il villaggio di Kukuljani e alcune sue frazioni, rubarono il bestiame, saccheggiarono le case, deportarono la popolazione e incendiarono abitazioni, stalle e altri "covi di ribelli". Nei campi di concentramento finirono 273 abitanti di Kukuljani e 200 di Zoretici.
Queste sanguinose persecuzioni indiscriminate contro la popolazione civile slava furono denunciate anche da eminenti personalità politiche italiane di Trieste, tra cui i firmatari di un Promemoria presentato il 2 settembre 1943 da un "Fronte nazionale antifascista" al Prefetto Giuseppe Cocuzza: era passato un mese e mezzo dalla caduta del regime fascista e nel documento, si fa una denuncia circostanziata di violenze, arresti, devastazioni e criminali esecuzioni «operate con grande discrezionalità da bande di squadristi che avevano goduto per troppo tempo della mano libera e della compiacenza di certe autorità».
Nell'iniziativa era evidente, oltretutto, un «diffuso senso di paura per una vendetta» che avrebbe potuto abbattersi indiscriminatamente sugli Italiani dell'Istria come reazione «alla tracotanza del Regime e dei suoi uomini più violenti che in Istria e nella Venezia Giulia avevano usato strumenti e atteggiamenti fortemente coercitivi nei riguardi delle popolazioni slave».
Quando arrivò inesorabile la stagione delle vendette, nel nuovo Governo Democratico pochi in fondo se ne meravigliarono : la nuova tragedia era stata a lungo preparata, coltivata e annunciata.
E il nuovo ordine mondiale impose loro di fare scendere una inesorabile e cinica coltre di oblio: la spietata logica dei nuovi equilibri europei vedeva sacrificata, oltre all’esistenza degli Italiani d’Istria e Dalmazia, anche la Verità e la Storia.
Le stesse che ancora oggi in troppi vogliono nascondere o riscrivere, secondo la propria convenienza.
Atos Benaglia
Segretario A.n.p.i. Pianoro
( fonti : Giacomo Scotti, giornalista e scrittore di Fiume/Rijeka - "Il Manifesto" 04/02/2005)