Nel settembre 1943 il CLN di Trieste, principale organo politico della Resistenza Italiana nella Venezia Giulia che assieme al Friuli era stata separata dal resto dell'Italia occupata per ordine di Hitler, trasformata in "Zona di Operazioni Litorale Adriatico" e affidata al governo del gaulaiter della Carinzia Friedrich Rainer, venne presto a trovarsi in una situazione di radicale capovolgimento dei rapporti di forza tra italiani e slavi nella Regione. Fu questo un fattore non solo di ordine politico e nazionale gravido di conseguenze per la presenza italiana fino ad allora dominante, ma anche di ordine militare per lo sviluppo del movimento partigiano sloveno e croato autoctono, sceso in lotta contro lo Stato oppressore sin dal 1941. Movimento che si collegò con l'esercito di liberazione sloveno e jugoslavo d'oltre confine, guidato dal Partito Comunista di Tito. Praticamente fin dal 1941, dopo l'invasione e lo smembramento della Jugoslavia ed il sorgere della guerriglia partigiana nel retroterra delle province di Gorizia e di Trieste, la Venezia Giulia gravitò politicamente e militarmente nell'area del conflitto nel settore danubiano-balcanico. La sua sorte venne a dipendere dagli sviluppi politici e militari nell'Europa sud orientale. La guerra era entrata in casa.
In Istria, abitata da popolazioni italiane, slovene e croate, il crollo dell'apparato politico-militare italiano fu seguito da un diffuso moto insurrezionale sloveno e croato, con la partecipazione anche di molti italiani accorsi a combattere i tedeschi che avevano in pochi giorni occupato i maggiori centri urbani della Regione (Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume) ma non ancora l'lstria interna ed una parte di quella costiera.
L'lstria era caratterizzata da una prevalente economia agricola spesso di pura sussistenza e con all'interno larghe zone di emarginazione e di povertà. L'affliggevano mali antichi come la ricorrente siccità, e recenti. C'era un'elevata mortalità infantile specie nella sua zona centrale, oltre alla malaria e alla tubercolosi che le provvidenze del regime non erano riuscite a debellare. L'Istria soffrì molto nel ventennio fra le due guerre non solo per la politica di snazionalizzazione linguistica, culturale, ma per il fiscalismo perverso praticato nei confronti dei contadini piccoli proprietari con pignoramenti e sequestri di beni mobili e immobili che produssero in alcune zone un forte spopolamento con grossi fenomeni di accattonaggio nelle città, segnalati anche da fonti prefettizie e fasciste. Il quadro istriano dell'epoca è stato analizzato nel volume collettaneo dell'Istituto regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste "L'Istria fra le due guerre" (Ediesse, Roma, 1985). Gli autori hanno utilizzato un imponente fondo archivistico della Regia Prefettura dell'lstria (Pola) conservato nell'Archivio di Pisino (oggi appartenente alla Repubblica di Croazia), e documenti del partito fascista istriano.
Con la guerra si inasprirono le misure di controllo poliziesco e militare comprendenti anche deportazioni di civili, compresi vecchi, donne e bambini in vari campi all'interno del Regno e con centinaia di arresti fra le maestranze operaie dei centri industriali, dove l'insofferenza, per quanto vigilata e repressa, aveva radici profonde. Nelle miniere carbonifere dell'Arsa, dove si estraeva un prodotto ad elevate calorie ma con un forte tenore di zolfo, la condizione operaia era assai dura, accresciuta dalle gravi crisi finanziarie e gestionali con conseguenti licenziamenti, sospensioni, riduzione di salari. Nel 1935 le miniere erano passate per il 60% alla proprietà pubblica dell'Azienda Carboni Italiani anche in connessione al riarmo e nel 1937 era stato insediato sul posto un Ufficio militare di sorveglianza. I carabinieri inviavano al prefetto di Pola promemoria quasi quotidiani sullo stato d'animo delle maestranze, tanto più che la zona era vicina al confine.
L'intensificazione dello sfruttamento si intrecciava con gravi deficienze nelle misure di sicurezza del lavoro, rilevate anche dal medico rovignese Mario Diana in una sua pubblicazione.
Nel 1939 vi lavoravano circa 9.000 operai fra italiani (molti provenienti da altre province del Regno), sloveni e croati. Gravi infortuni erano accaduti nel 1937 con 13 morti e nel '39 con 7, ma la sciagura peggiore esplose il 28 febbraio 1940 a pochi mesi dall'entrata in guerra, con 185 morti e 149 feriti. Un disastro rimasto impunito benché fossero emerse le gravi responsabilità della direzione, confermate anche da fonti fasciste e di polizia.
L'impetuosa e caotica insurrezione croata del settembre 1943, subentrata al crollo dello stato dominante italiano, ebbe dunque forti motivazioni nazionali e sociali e manifestazioni di rara violenza. Bisogna dire che il crollo italiano dell'8 settembre era stato vissuto dalla maggioranza delle popolazioni slovene e croate come la fine di un incubo.
Lo stato dominante ed oppressore si era disgregato e l'entusiasmo popolare per la riconquistata libertà fu genuino.
Ma l'8 settembre '43 in Istria ebbe un tragico epilogo. Il contropotere partigiano ed insurrezionale a direzione croata si insediò nel centro dell'Istria a Pisino. Saltando ogni fase intermedia e senza preoccuparsi della popolazione italiana, il Consiglio di liberazione croato per l'Istria proclamò subito l'annessione dell'Istria alla Croazia il 13 settembre con una dichiarazione dal linguaggio fortemente nazionalistico.
Questo atto unilaterale fu sanzionato dal governo partigiano della Croazia, ZAVNOH (Consiglio Territoriale Antifascista della Croazia), il quale promise che l'autonomia della "minoranza italiana" sarebbe stata assicurata. Analoga e più solenne sanzione fu data a Jaice il 29 novembre 1943 dal massimo organo rappresentativo ed esecutivo della Jugoslavia, l'AVNOJ (Consiglio Antifascista di Liberazione Nazionale della Jugoslavia) che approvò anche l'annessione del "Litorale sloveno" (province di Gorizia e Trieste, Resia e Valli del Natisone in provincia di Udine) decretata dagli organi direttivi del movimento di liberazione sloveno. Parte notevole della popolazione italiana dell'Istria fu sorpresa ed impreparata di fronte ai turbinosi eventi del '43 ed all'insurrezione croata, malgrado l'intervento nella lotta di molti volontari italiani e la nascita nell'area costiera di comitati pluripartitici italiani. Fu in quei giorni che non pochi italiani dell'Istria scoprirono o riscoprirono la presenza del "vicino" croato, di cui allora poco o nulla sapevano malgrado le brevi distanze fra i paesi italiani e slavi, ignorandone - con o senza un preconcetto malanimo - sentimenti, tradizioni, umiliazioni subite. In molti casi c'era stata un convivenza fra separati o sconosciuti in una casa secolare comune, una frattura esistenziale, storica e culturale in una terra nazionalmente composita ed in alcune zone etnicamente non districabile.
Nel clima esaltante e violento della libertà riconquistata, e di un sentimento nazionale a lungo soffocato, accompagnato da manifestazioni di rivalsa sociale, prese corpo in alcuni dirigenti e insorti croati la volontà di una resa dei conti con gli italiani "fascisti". Diffusa fu in alcune zone l'equazione italiani/padroni e italiani/fascisti. Ma i padroni grossi proprietari terrieri nella società prevalentemente agricola dell'Istria furono relativamente pochi e sembra che il maggiore fra essi fosse croato.
Furono vittime di persecuzioni ed uccisioni anche semplici addetti e impiegati comunali presi quasi a simbolo del potere dominante italiano oltre a notabili di paese, a commercianti ritenuti sfruttatori, a piccoli gerarchi locali. Ma furono colpite numerose persone con le quali questo o quell'improvvisato "comandante" di gruppi partigiani e di insorti aveva avuto degli screzipersonali in passato o conflitti di interesse.
Alcuni di questi "giustizieri", emersi da una condizione di anonimato "politico" e sociale, apparvero ubriacati da un senso di potere e di forza che li spingeva a decidere sulla vita delle persone senza indugi e ripensamenti.
Dopo un ricerca ancora limitata, fatta a Fiume ed in alcune zone dell'Istria italiano di Fiume "La voce del popolo" scrisse di uccisioni che erano "vendette personali non ideali", segnalando casi di persone italiane e croate uccise per malvagità e per altri oscuri motivi. A Rovigno, uno dei maggiori centri italiani dell'Istria, subito dopo l'8 settembre sorse una "CEKA" (dal nome della polizia politica sovietica creata dopo la Rivoluzione d'ottobre) su iniziativa di un gruppo di estremisti ed avventurieri che gli esponenti del Comitato Partigiano locale Pino Budicin e Giusto Massarutto riuscirono a neutralizzare.
Ljubo Drndic´ ha scritto che uno dei principali dirigenti dell'insurrezione croata in Istria nel settembre '43 Joakim Rakovac, nato in Istria ed all'epoca presidente del Comitato popolare di liberazione e membro della direzione del Partito Comunista croato dell'Istria, raccomandò pubblicamente che la punizione dei criminali fascisti avvenisse con regolari processi, impedendo nella maniera più energica procedimenti arbitrari e vendette. Se queste direttive vennero date, restarono spesso disattese o ignorate. In quel clima acceso emersero anche violenze simili alle "jacqueries" contadine: elementi del contado slavo che si vendicavano sul "cittadino" italiano. Ma qui la ricerca storica è ancora carente. Ad esempio una ricognizione analitica sul terreno, utilizzando le fonti orali, incontra tuttora difficoltà, per la diffusa reticenza a parlare della gente dei paesi slavi nelle aree in cui gli eccidi avvennero, dovuta forse a consolidati timori o a volontà di rimozione di fatti deprecati e deprecabili.
Sempre il Rakovac in un articolo del Novi List riportato da "La Voce del Popolo" del 28 settembre 1990 "Riconoscere gli errori" nega che le "terribili foibe" fossero opera di "comunisti" al comando di "serbi ed unitaristi ... come si vorrebbe far credere". Furono la vendetta degli "schiavoni" (così erano chiamati i croati della Dalmazia trasferitisi in Istria sin dai tempi della Repubblica di Venezia), sulla spinta di uno sciovinismo e revanscismo. Quando gli italiani "fascisti ed altri" vennero infoibati soprattutto prima dell'arrivo dei tedeschi nell'ottobre 1943, non c'erano allora in Istria tra i dirigenti dell'insurrezione e tra i combattenti, né commissari serbi e "neppure un solo croato che non fosse dell'Istria". Dunque, secondo Rakovac, le foibe del '43 furono un fatto specificatamente istriano e non di importazione o di imposizione esterna da parte del movimento partigiano jugoslavo.
Dalle esumazioni compiute nel '43 e '44 dai Vigili del Fuoco di Pola del maresciallo Harzaric´, in molte foibe istriane in cui giacevano i corpi delle vittime, risultò che non poche di esse erano state oggetto di fosche vendette ed estranee alle violenze fasciste; risultò anche che furono seviziate prima dell'esecuzione.
Fra i numerosi casi accertati, tristemente "esemplare" fu quello della studentessa universitaria Norma Cossetto, colpevole solo di chiedere notizie del padre arrestato dai partigiani. Arrestata, a sua volta fu seviziata a lungo prima di essere uccisa. Una targa apposta dall'Università di Padova che frequentava, ne ricorda la tragica fine e ciò per volontà del prof. Concetto Marchesi del PCI, latinista insigne e rettore dell'Università stessa. A segnare la sorte di molti imprigionati, che forse avrebbe potuto essere diversa per una parte di essi, fu la rapida controffensiva tedesca di fine settembre-primi ottobre 1943 con il suo corredo di stragi e di devastazioni indiscriminate che colpirono sia le popolazioni italiane che slave, seminando lutti dappertutto. Ciò probabilmente indusse i carcerieri a "liberarsi" dei prigionieri in quanto testimoni pericolosi. I Vigili del Fuoco di Pola recuperarono dalle foibe 206 corpi, di cui una parte poté essere identificata. Fra essi anche una ventina di tedeschi. Ma le vittime furono almeno 500 in maggioranza italiani, ma anche croati. È indubbio che ci fu una presenza di autentici criminali fra gli insorti, che sfogarono i loro istinti brutali infierendo sui prigionieri.
Rare e parziali furono le ammissioni da parte slava. A Milano al CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia), Anton Vratus ?a rappresentante del governo partigiano sloveno, ammise le singole irregolarità verificatesi nei giorni di settembre '43 che "non hanno niente a che fare con i fini del popolo sloveno ... fenomeni marginali dovuti in maggioranza a singoli individui irresponsabili venuti nelle file dell'OF nei giorni dopo il crollo dell'esercito italiano". Ma la maggioranza delle violenze di allora avvennero nelle parti dell'Istria abitate da croati oltre che da italiani.
Da parte croata si sostenne che nelle foibe finirono "non solo gli sfruttatori e assassini fascisti italiani, ma anche i traditori del popolo croato, i fascisti ustascia e degenerati cetnici. Le foibe non furono che l'espressione dell'odio popolare compresso in decenni di oppressione e sfruttamento, che esplose con la caratteristica violenza delle insurrezioni di popolo".
Ma questa era solo una parte della verità che cancellava l'altra che per la sua efferatezza suscitò forti emozioni anche fra la popolazione croata che il comunicato invece coinvolgeva, con la formula dell'"odio popolare", negli eccidi compiuti e nei modi in cui erano avvenuti. E se in quel clima di guerra spietata poteva essere non giustificabile ma comprensibile l'uso di queste spiegazioni sommarie, non va dimenticato che gran parte della pubblicistica croata dopo la guerra e fin quasi agli anni '90, rimosse completamente il problema o accusò di sciovinismo e di ostilità verso il regime comunista jugoslavo coloro che non condividevano silenzi o rimozioni sugli avvenimenti istriani del '43. Ed anche su quelli del dopoguerra quando arresti, deportazioni, sparizioni furono in gran parte "gestiti" dalla onnipotente polizia politica (OZNA-UBDA), colpendo molti innocenti colpevoli di dissentire dalla politica comunista jugoslava o che militavano in organi o gruppi della Resistenza italiana contrari all'annessione di Trieste e di tutta la regione alla Jugoslavia.
In quel settembre '43 decine di migliaia di soldati italiani sbandati ed in gran parte inermi, provenienti dalla Balcania, attraversarono l'Istria per raggiungere le loro case. Come quelle italiane, le popolazioni slovene e croate nella loro maggioranza diedero prova di solidarietà e comprensione verso di essi. Furono manifestazioni collettive certo dovute ad impulsi spontanei di pietà e umanità verso questi ex nemici, in maggioranza contadini come i loro soccorritori, ma che può anche suscitare fondati dubbi non sulla diffusa partecipazione delle popolazioni slave della regione al moto di riscatto nazionale e sociale, ma sul loro diretto coinvolgimento negli eccidi. Il Drndic´ ha scritto che le direttive impartite dal Rakovac il 13 settembre 1943 a Pisino furono di disarmare questi soldati a meno che non volessero entrare "nelle nostre formazioni partigiane ... per un'Italia progressista di domani" (come alcuni gruppi di sbandati fecero) e comunque di fornire loro "l'aiuto necessario perché potessero tornare alle loro case". Ma l'aiuto popolare fu comunque spontaneo ed immediato. Il col. Dino Di Janni, capo di S.M. del 23° Corpo d'Armata, ha scritto in un suo dettagliato memoriale sulle vicende militari del 25 luglio e dell'8 settembre nella regione, memoriale che fu allegato al processo svoltosi nel dopoguerra contro il Generale Esposito (Di Janni venne arrestato e deportato in un lager dove morì) che "una marea di sbandati della II Armata si riversarono attraverso il territorio del 23° Corpo... I ribelli e le popolazioni slave inconciliabili nemici di ieri e di domani, furono larghissimi di aiuti di ogni genere a favore dei fuggiaschi: ospitalità, vitto, indumenti civili, indicazioni di itinerari più sicuri, ecc.".
Se le foibe, di cui entrambe le parti si servirono anche come sbrigativa sepoltura dei nemici caduti in combattimento, suscitarono in molti italiani, insieme all'orrore che la morte in questi abissi provocava, la sensazione di una gravissima minaccia alla loro esistenza nazionale, tuttavia non determinarono allora un consistente esodo verso Trieste ed altri luoghi più sicuri come avverrà nel primo decennio postbellico.
La grande maggioranza degli italiani rimase. Se ne andarono alcuni gruppi di gerarchi fascisti istriani e di persone che, arrestate dai partigiani, erano state liberate dall'intervento tedesco. I fascisti sfruttarono a fondo gli eccidi delle foibe, mentre i tedeschi annunciarono la sconfitta dei partigiani, sostenendo che ben 13 mila di essi erano stati uccisi o catturati.
In realtà un gran numero di civili fu vittima dei nazisti che in quei giorni si scatenarono con tutti i mezzi contro le popolazioni, incendiando paesi, sparando sugli abitanti, impiccando ed uccidendo donne, bambini ed anche sacerdoti.
Gli eccidi in Istria indussero il dirigente comunista italiano di Rovigno Pino Budicin, reduce da anni di carcere e confino, a sollevare il problema in una riunione del Partito Comunista Croato, ma senza esito. Ne parlò anche al compagno Vincenzo Gigante del Comitato centrale del PCI, condannato a 20 anni dal Tribunale speciale fascista e che, fuggito da un campo di concentramento del Sud, aveva raggiunto l'Istria e poi i comandi partigiani e del partito nel Gorski Kotar, oltre il vecchio confine. Gigante, che condivideva le preoccupazioni di Budicin, lo sconsigliò dall'insistere dato il momento, l'intensità della lotta e la grave situazione creatasi in Istria con la devastante offensiva tedesca. Budicin fu ucciso qualche tempo dopo dai fascisti di Rovigno ed il suo nome fu dato al battaglione italiano che, inquadrato in una divisione, combatté valorosamente fino alla fine della guerra.
Budicin fu uno dei principali promotori della lotta partigiana degli italiani in Istria. Come è noto, il giudizio più diffuso a Trieste, Gorizia ed altrove, rilanciato di recente dalla grande stampa nazionale e dalla RAI, salvo alcune lodevoli eccezioni, è che le uccisioni di migliaia, anzi di decine di migliaia di italiani da parte jugoslava nel maggio '45 e nei mesi successivi nella Venezia Giulia, gettando le vittime nelle foibe, rispondeva ad un piano di vero e proprio "genocidio" cioè di uno sterminio etnico finalizzato all'estirpazione della presenza italiana nella Regione.
Per avvalorarlo si è parlato e scritto quasi sempre di foibe ed infoibati, onde sottolineare non solo l'orrore dei metodi di esecuzione (le vittime gettate vive nelle voragini carsiche), ma la certezza che tutti gli scomparsi di quel periodo erano stati ingoiati dagli abissi.
Già le non facili ricerche condotte nei decenni scorsi dagli Istituti regionale e friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, e da eminenti storici giuliani (de Castro, Apih, Pupo ed altri), avevano ricondotto le violenze jugoslave del 1945 a matrici e proporzioni diverse da quelle sostenute da alcuni ambienti locali e dalla stampa nazionale, ridimensionando anche le cifre delle vittime e contestualizzando storicamente il problema senza per questo indulgere a giustificazioni dei crimini. Era apparso chiaro sin da allora - pur nell'incompiutezza delle fonti, l'inaccessibilità di quelle jugoslave e le motivazioni strumentali o negazioniste della stampa e delle autorità del regime comunista jugoslavo (fascisti caduti in combattimento, fascisti condannati per i loro crimini, inesistenza dei deportati nei campi, ecc.) - che la tesi del genocidio programmato aveva ben scarso fondamento. Era inoltre emerso che forse il maggior numero delle vittime non era stato provocato nel 1945 dalle esecuzioni sommarie, ma dalle deportazioni di massa di civili e militari italiani decimati nei campi dalla fame, malattie, trattamenti brutali ed anche esecuzioni intervallate nel tempo e senza processo, generalmente per iniziativa dell'OZNA (Organizacija za Zascito Naroda - Organizzazione per la difesa del popolo, polizia politica), già polizia partigiana, formata in gran parte da elementi dell'Armata jugoslava, divenuta poi polizia politica del Ministero dell'Interno sloveno, croato e delle altre repubbliche, assumendo la denominazione di UBDA. Le repressioni jugoslave dell'epoca non rientravano in piani di "sterminio etnico", ma erano dovute a ragioni prevalentemente politiche contemplanti la neutralizzazione rapida di tutti gli avversari (o ritenuti tali) del nuovo potere jugoslavo e non solo dei collaborazionisti sia italiani che sloveni e croati.
Le più recenti ricerche compiute dagli storici italiani Raoul Pupo ed Elio Apih, componenti della commissione mista italo-slovena in base ad accordi fra i due governi (quella italo-croata è ancora in fase di stallo), hanno confermato l'inesistenza di un piano di sterminio etnico. Le radicali misure messe in atto dalla parte jugoslava, mirarono prevalentemente a liberarsi di tutti gli avversari del nuovo potere jugoslavo, nazionali, politici, ideologici, oltre che dei collaborazionisti.
La terminologia accusatoria dei vari organi politici, militari e di polizia sloveni fu quella di "fascista" e di "reazionario", spesso sovrapponibili e dilatabili a dismisura. Lo stesso si può dire per gli organi croati operanti nell'Istria e a Fiume dove però le persecuzioni del 1945, a differenza di quelle del settembre-ottobre '43, ebbero spesso un carattere più "mirato" e circoscritto tranne che per i militari, agenti di polizia ecc. deportati in massa, e dove più sporadiche furono alla conclusione della guerra le esecuzioni con infoibamento.
Le direttive impartite dal Comitato centrale del Partito comunista sloveno (CC-PCS) il 7 marzo 1945 furono quelle di "preparare per Trieste il personale qualificato, la polizia. In ventotto ore mettere in funzione tutto l'apparato, prelevare i reazionari (sottolineatura nostra) e condurli qui, qui giudicarli - Là non fucilare". Nei dispacci inviati allora da Edvard Kardelj (massimo leader del partito e di tutto il movimento di liberazione sloveno e secondo solo a Tito sul piano nazionale jugoslavo) si prescriveva che "è necessario imprigionare tutti gli elementi nemici e consegnarli all'OZNA per processarli... Epurare subito, ma non sulla base della nazionalità, bensì su quella del fascismo ".
Come ha scritto giustamente Raoul Pupo si tratta "di un programma assai esplicito, la cui sostanza politica è resa evidente dall'individuazione del nemico da eliminare: non certo "gli italiani" - come vorrebbero i sostenitori della tesi dello sterminio etnico - ma i "reazionari", termine che nel linguaggio dei comunisti del tempo (lo stesso avviene anche nell'area croata) si sovrappone spesso a quello di fascisti e copre tutte le posizioni politiche non riconducibili a quelle del Fronte di liberazione sloveno (OF) con particolare riferimento al nodo "annessione alla Jugoslavia-costruzione del socialismo". Da questo punto di vista, per i comunisti sloveni reazionaria è l'intera Resistenza italiana non comunista, secondo una valutazione che emerge per esempio con grande chiarezza dai rapporti inviati dall'Italia da Anton Vratus?a", rappresentante del governo partigiano e del PCS presso il PCI Alta Italia e il CLNAI. In un dispaccio del CC del PCS al Comitato del Partito per il Litorale sloveno (Venezia Giulia, province di Gorizia, Trieste e Slavia Veneta in Provincia di Udine) del 29 aprile 1945, si ordinava di "smascherare ogni insurrezione che non si fondi sul ruolo guida della Jugoslavia di Tito contro l'occupatore nel Litorale, sul Comando-città (del IX Corpo sloveno), sulla cooperazione fra italiani e sloveni, consideratela un sostegno all'occupazione ed un inizio di guerra civile".
Quanto ai militari non tedeschi e all'intero corpo di polizia e di amministrazione di Trieste, andavano considerati nemici ed occupatori. Emergeva qui la presunzione di una colpevolezza collettiva per tutti coloro che portavano una divisa, simbolo di una lunga e cruenta lotta contro i nazifascisti ed il loro potere spietato, fino a coinvolgere anche i singoli ed i gruppi che avevano operato clandestinamente con il CLN italiano e partecipato ad un'insurrezione non fondata "sul ruolo guida della Jugoslavia di Tito".
Furono così colpiti numerosi appartenenti alla Guardia Civica ed alla Guardia di Finanza. Date le premesse politiche del Partito comunista sloveno, il verdetto di condanna si estese a tutti gli insorti, civili o ex militari che fossero, dipendenti dal CLN italiano, ed al CLN stesso che aveva respinto le proposte di accordo con l'OF in base alle quali il Comitato italiano sarebbe stato fagocitato dall'organizzazione slovena ormai dominante anche sul Partito comunista italiano locale, divenuto una sua appendice. Ed il CLN fu considerato "criminale e famigerato", un vero e proprio complice dell'occupatore, peggio dei fascisti della RSI.
Vennero così perseguitati esponenti e militanti del CLN di Trieste e Gorizia parte dei quali o furono subito uccisi e infoibati o morirono in campi di deportazione jugoslavi. I più fortunati furono rimpatriati dopo anni di carcere e di sofferenze, assieme a quella parte dei deportati di maggio '45, fascisti e non, che furono liberati a scaglioni nei mesi ed anni successivi sembra anche in base a disposizioni prescriventi il rilascio degli originari dei territori della Venezia Giulia su cui si era insediato il potere jugoslavo.
In quell'immediato dopoguerra l'epurazione degli avversari politici e dei dissidenti "reazionari" colpì anche i gruppi antifascisti italiani di Fiume e dell'Istria, oltre a sloveni e croati e ad una manovalanza di fascisti autentici, di delatori o responsabili di rappresaglie contro i partigiani e le popolazioni civili. Basterà qui ricordare che a Fiume nei primi giorni dell'insediamento jugoslavo, furono soppressi alcuni anziani superstiti del movimento autonomista di Riccardo Zanella, perseguitato dal fascismo, movimento che dopo il fallimento dell'impresa dannunziana, aveva ottenuto il consenso della maggioranza della popolazione fiumana e anche di numerosi croati, nell'assumere la direzione dello Stato libero di Fiume creato in base al Trattato italo-jugoslavo di Rapallo del 12 novembre 1920. Uno stato che ebbe breve vita a causa della violenta azione disgregatrice di gruppi nazionalfascisti giuliani.
In un'intervista ad uno dei capi dell'OZNA di Fiume nel '45, pubblicata dal quotidiano "La Voce del Popolo" di Fiume del 28 luglio 1990 col titolo Intervista con Oskar Piskulic´-Zuti, ommissario di comando della città di Fiume disse: "Le foibe non ci sono, non è vero niente", alla domanda sui motivi dell'uccisione di questi autonomisti, il Piskulic ´ rispose che pur non avendo essi collaborato col nemico, non avevano mai combattuto e ciò voleva dire "passivizzare le masse". Richiesto di quali fossero stati i suoi compiti come capo della polizia segreta, Piskulic´ rispose che tali compiti erano di combattere tutti quelli "che non si conformavano al sistema ". Tra gli antifascisti italiani colpiti allora dall'OZNA a Fiume ci furono anche esponenti del Comitato antifascista italiano esistente in città tra il '43 e il '45, di cui facevano parte anche alcuni comunisti.
Uno dei più attivi militanti dell'antifascismo fiumano nella lotta contro il regime, dal quale subì arresti e carcere, e della Resistenza dopo l'8 settembre 1943, il repubblicano Angelo Adam che aderiva al programma del Partito d'Azione, sopravvissuto al lager di Dachau, fu arrestato assieme alla moglie ed alla figlia e con esse scomparve per sempre.
Nel dopoguerra assunsero una triste notorietà il campo di concentramento di Borovnica a sud di Lubiana e le carceri di St. Vid (San Vito) nella capitale slovena dove diversi carcerieri praticamente padroni della vita dei detenuti, gareggiarono in brutalità di ogni genere. Altri campi, come quelli di Teharje nella Slovenia settentrionale e di Kocevje nella parte meridionale, raccolsero oltre a numerosi italiani, migliaia di prigionieri sloveni, croati, serbi ed anche una minoranza di tedeschi di varie organizzazioni naziste. Fra i deportati, oltre ai civili, c'erano anche militari slavi delle unità collaborazioniste, risparmiati fino a quel momento dalle esecuzioni di massa eseguite nell'immediato periodo postbellico nella zona di Kocevje contro "domobrani" sloveni e "ustascia" croati e sembra anche una parte dei loro famigliari: 10-12 mila uccisi in pochissimo tempo.
Il prof. Diego de Castro, nativo di Pirano d'Istria, eminente studioso e strenuo difensore della causa italiana, già consigliere politico del governo italiano presso il GMA di Trieste, ha dichiarato al periodico triestino "Il Meridiano" del 1° maggio 1985, che le foibe, oltre ad essere un prodotto della barbarie seguita al 1918 "sono un fatto secondario... e gli stessi jugoslavi a Kocevje hanno passato per le armi, in un colpo solo, dieci o dodicimila compatrioti collaborazionisti. Il doppio o il triplo degli italiani uccisi in tutta l'area che va da Zara a Gorizia, che secondo i dati forniti dagli alleati, dovrebbero essere dai 4 mila ai 6 mila"
Questa valutazione è simile a quella degli storici Elio Apih e Raoul Pupo.
Certamente nell'incrocio delle logiche della violenza in quel maggio 1945 emersero anche forme di revanscismo nazionalistico, di "resa dei conti", di "risposta" anche selvaggia ed indiscriminata a vent'anni di sofferenze, umiliazioni, repressioni nazionali e sociali, deportazione di migliaia di civili compresi vecchi, donne e bambini, di eccidi collettivi di ostaggi civili sia nella Venezia Giulia che nella Jugoslavia aggredita e smembrata.
Il "parossismo della violenza", come lo ha definito Elio Apih si abbatté sulle popolazioni slovene e croate, sugli antifascisti italiani e sulla stessa classe operaia, prima e dopo il 25 luglio '43 nella nostra regione, per non parlare dei territori jugoslavi oltre confine.
Gli ordini impartiti da Mussolini ai massimi capi militari nazionali, locali e del fronte balcanico a Gorizia nell'agosto del 1942, furono draconiani, incitando a colpire anche le popolazioni "complici". In quel periodo la violenza fascista si abbatté a Trieste anche sulla comunità ebraica, che era parte integrante della borghesia patriottica e d'ordine italiana. Le atrocità dell'Ispettorato Speciale di PS insediato con poteri discrezionali a Trieste nell'aprile del '42, furono inutilmente denunciate a Roma dal Vescovo mons. Santin ("Vi sono particolari che fanno inorridire", scrisse).
L'occupazione nazista, che usò unità e servizi del collaborazionismo italiano (compreso l'Ispettorato Speciale), sloveno e croato sotto la direzione delle SS, alternò alle manovre propagandistiche, esaltanti il ruolo che Trieste avrebbe acquistato nel grande spazio europeo del Nuovo Ordine dopo aver subito il lungo "sgoverno" italiano incapace di gestire una regione "crogiolo di popoli", pianificate violenze fasciste e militari accompagnate da periodiche razzie di uomini (dai 16 ai 60 anni).
Emerse la ferocia del capo della polizia ed SS Odilo Globocnik, il massacratore di ebrei polacchi. Egli era intimo amico del Supremo Commissario il Gauleiter Friedrich Rainer (entrambi austriaci), nominato da Hitler governatore dell'Operationszone Adriatisches Küstenland (Zona d'Operazioni Litorale Adriatico) come fu designata tutta l'area comprendente le vecchie province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola e la nuova "provincia" di Lubiana annessa all'Italia nel maggio 1941.
Furono qui adottati metodi simili a quelli praticati nei territori dell'Est Europa (Polonia, URSS), come afferma anche la sentenza della Corte d'Assise di Trieste sui crimini nazisti nell'orrido lager triestino della Risiera di San Sabba (un rione della città).
L'occupazione nazista, ultimo atto della rovinosa esperienza fascista, come ha scritto Enzo Collotti, scavò nuovi solchi di sofferenze e di sangue nelle città giuliane, nei villaggi slavi del Carso e in Friuli.
Tutto questo concorse ad alimentare con l'arrivo delle forze jugoslave, forme di vendetta e di ritorsione contro i "fascisti", italiani nelle città a maggioranza italiana, slavi nelle località slovene e croate.
Dilagarono ondate di denunce spesso sommarie e generiche ("fascista", "reazionario") all'OZNA, dirette anche contro numerosi innocenti e persone che avevano ricoperto modeste cariche nelle varie organizzazioni di massa del regime, mentre la gran parte degli alti gerarchi politici e militari fascisti o riuscì a salvarsi o non fu presa di mira.
"Fu uno dei momenti di arrivo - ha scritto Raoul Pupo - nella dimensione locale, del processo generale di imbarbarimento dei rapporti politici che raggiunse il suo culmine in Europa nella prima metà degli anni Quaranta".
In questo contesto le direttive di repressione politica e non nazionale, emanate dal Partito Comunista sloveno, furono applicate solo in parte, pur restando la linea-guida prevalente delle misure da adottarsi a Trieste e nelle zone occupate dalla vittoriosa armata jugoslava. E da adottarsi sollecitamente non solo per consolidare i poteri e le posizioni raggiunti nei territori rivendicati ma anche per preparare il terreno alle iniziative ed esigenze politiche e diplomatiche del governo jugoslavo per l'ormai prossima conferenza della pace.
La stessa OZNA sempre più onnipotente e talora sorda ai rilievi e richieste di dirigenti sloveni impegnati a creare localmente gli organi ed i poteri civili di governo con caratteristiche rivoluzionarie, ma interessati ad allargare i consensi, assunse spesso e sbrigativamente le accuse generiche di "reazionario" e di "fascista" come titolo sufficiente per la deportazione o per l'esecuzione sommaria degli indiziati italiani.
A sua volta la IV Armata jugoslava, giunta a Trieste il 1° maggio 1945 (ad insurrezione ancora in corso), dopo aver infranto con duri e cruenti scontri gli sbarramenti tedeschi fra Fiume e Trieste, fece fucilare alcune centinaia di militari e civili italiani, i cui corpi vennero "sepolti" nel pozzo della miniera di Basovizza ed in diverse foibe del Carso.